lunedì 31 dicembre 2012

Una buona fine e un migliore inizio...

Come ultimo post di quest'anno abbiamo pensato di proporvi alcune immagini del maestro Diego Centurione e due allievi, Andrea e Miriam, della sua scuola, L'Officina della musica di Novate Milanese, che si sono esibiti a L'OrablùBar in un paio di occasioni.
Approfittiamo per augurare a tutti una buona fine e un migliore inizio. Inviamo infine un infinito grazie a tutti quelli che ci hanno seguito, supportato e sopportato durante questo 2012.
Buone feste!

giovedì 20 dicembre 2012

Cercasi amore per la fine del mondo


Cercasi amore per la fine del mondo

(USA, Singapore, Malesia, Indonesia 2012)
Genere: fine del mondo
Se ti piace guarda anche: Perfect Sense, Deep Impact, Melancholia, Nick & Norah - Tutto accadde in una notte
Uscita italiana prevista: 17 gennaio 2013

Arriva la fine del mondo.
Ancora? Ma che palle!
Quanti film abbiamo già visto su questo tema? Un sacco. Un sacco tra questi per di più lasciano alquanto a desiderare, in particolare i super catastrofici firmati dai Roland Emmerich e Michael Bay di turno. Tanto per non far nomi.
Per fortuna, negli ultimi anni abbiamo assistito anche a una variante parecchio più interessante per questo genere di pellicole. La grande svolta si è avuta con Donnie Darko, il più singolare tra gli end of the world movies. Ma ultimamente ci sono state altre sorprendenti storie che si sono sviluppate attorno alla fine del mondo, diventata quasi un pretesto per raccontare qualcosa di altro.
Ci sono stati ad esempio Perfect Sense, più virato sul lato drama, e Melancholia, di cui questo è quasi un opposto più umano e toccante. Propro come le pellicole sopracitate, Cercasi amico per la fine del mondo, la cui uscita italiana è prevista per il 17 gennaio 2013, non è solo e non è tanto un film apocalittico. È più che altro un film sul trovare se stessi, sul trovare l’amore, un on the road movie dalle tinte comedy eppure dal retrogusto amaro costantemente presente. Dopo tutto, il mondo sta pur sempre per finire.


Una comedy non-comedy piacevole e intimista, che per questi aspetti mi ha ricordato film come Garden State o Young Adult, mentre per la componente on the road mi ha fatto pensare ad Elizabethtown di Cameron Crowe. Tutti film con cui ha in comune una notevole passione per la musica (qui la protagonista femminile non riesce ad abbandonare i suoi dischi preferiti in vinile) e un’attitudine da commedia indie.
Non a caso a firmare questa piccola perla di cinema apocalittico è Lorene Scafaria, al suo esordio come regista ma già sceneggiatrice di un’altra piccola perla, il romantico indie movie Nick & Norah - Tutto accadde in una notte, con i due padalini del cinema indipendente americano Michael “togli la” Cera e Kat “tette grosse” Dennings, oggi irresistibile protagonista della sitcom 2 Broke Girls. Lorene Scafaria che a questo punto si candida di diritto non ad avere la candida, né si candida in politica, bensì si candida a essere la nuova Diablo Cody. E Diablo Cody per me è la Shakespeare al femminile del cinema indie odierno, tanto per scomodare un paragone poco impegnativo.

Un gioiellino, questo film, che funziona perché riesce a trattare un argomento abusato, come quello della fine del mondo, in maniera estremamente delicata e personale. La pellicola non è mai sopra le righe, non è mai urlata, è leggera e profonda al tempo stesso come un disco dei The XX. O come la splendida canzone dei Walker Brothers che accompagna il finale, “The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore”.



Tutto è bene quel che finisce bene?
Se lasciamo da parte il pensiero che il mondo sta per finire, per quanto riguarda la pellicola sì. Tutto procede ottimamente. Regia non fenomenale, ma comunque puntuale e precisa, sceneggiatura ottima che sa alternare il sorriso (non la risata) a momenti (quasi) da lacrimuccia, un protagonista perfetto nella sua apatia come Steve Carell e una bella serie di comprimari di lusso provenienti per lo più dal piccolo schermo: Connie Britton, la MILF per eccellenza della tv americana grazie alle sue partecipazioni a Friday Night Lights, American Horror Story 1 e oggi Nashville, William Petersen per anni e anni il Grissom di CSI, Gillian Jacobs di Community, Mark Moses di Desperate Housewives, Tonita Castro di Go On e Adam Brody, leggendario in The O.C. nella parte di Seth Cohen, probabilmente il primo vero e proprio indie geek (e non nerd) nella Storia della tv USA.




Tutto perfetto, a parte la protagonista femminile: Keira Knightley. Io ho rapporto conflittuale con Keira. Prima non mi piaceva, poi ha cominciato a piacermi, per un breve periodo mi è piaciuta parecchio, quando l’ho vista in Espiazione, Domino, Orgoglio e pregiudizio, La duchessa e Last Night, e quindi l’ho vista in A Dangerous Method, una delle intepretazioni più agghiaccianti a memoria d’uomo. Una di quelle intepretazioni che ti fanno desiderare che il mondo finisca veramente. In questo film la sua performance non è - grazie al Cielo - a quei livelli, però continua a fare tutte queste smorfiette davvero inquietanti. Perché?
In pratica, se al posto di Keira Knightley ci fosse stata un’altra attrice, non dico Natalie Portman, ma almeno un’attrice dotata di espressioni facciali umanamente normali, questo film sarebbe stato davvero la fine del mondo. Così com’è resta pur sempre un gran bel film. Guardatelo assolutamente. A meno che il mondo non finisca prima.
(voto 7,5/10)
Cannibal Kid

mercoledì 19 dicembre 2012

Il tempo non aspetta nessuno



Seduto in un bar qualsiasi bevo caffè e fumo di tanto in tanto qualche mozzicone. Me ne sto con le tempeste sonore di Bob Dylan nelle orecchie e sono davvero su di giri. Ho la stessa eccitazione che si prova quando si fa una cosa che non si può fare. O come quando cerchi delle risposte e non le trovi neanche a spremerti il cervello come un limone. “Dici che sono un giocatore d’azzardo, dici che sono un magnaccia. Ma non sono nessuno dei due. Ascolta il fischio di Duquesne che soffia” (Duquesne Whistle). Qualche giorno fa sono andato per l’ennesima volta all’ufficio di collocamento. Un nuovo impiegato, simpatico come un becchino delle pompe funebri, mi ha detto che non c’era trippa per gatti, per cui facevo meglio a ripassare tra qualche mese o tra qualche anno, tanto era lo stesso. Nel frattempo frusciai ad alta voce: “vengo a mangiare da lei”. Il tizio ha fatto finta di non capire. Mi incamminai a testa bassa rovistando nei pensieri più infimi verso i bassifondi della città, che poi non sono altro che il quartiere dove sono nato e cresciuto. Ho  molti amici da queste parti è un lavoretto più o meno lecito sarebbe venuto fuori.
Avevo sempre sognato di scivolare nel ventre della notte per perdermi nella sua anima. Ma anche di andarmene da qualche parte dove il sole splende sempre. Avrei voluto fare un sacco di cose, anche amare qualcuno, ma non facevo un cazzo di niente. Mi ero laureato in giurisprudenza con il massimo dei voti. I miei genitori avevano tirato la cinghia e anche qualcos’altro per farmi studiare perché sin da piccolo promettevo bene e il loro sogno era quello di avere un figlio da chiamare dottore. Quasi fossi una roulette, avevano puntato tutto su di me. Indubbiamente, avevo fatto la mia parte fino in fondo, se lo meritavano, ma a dire il vero anche allora alle volte avrei voluto dileguarmi come un fuggiasco nella notte. A cosa sono serviti tutti quei sacrifici, pensai ingoiando un sorso di caffè, se sono uno dei tanti che rimpingua la fila dei disoccupati? Mi do da fare, svolgo mille lavoretti, anche cose odiose come il venditore porta a porta. Però, in questo cazzo di paese, vendere è l’unica prospettiva che ti viene data. Alla fine qualcosa vendo e qualcosa riscuoto, ma sempre troppo poco per tirare avanti. Insomma, mi sento  bello e inguaiato e non ho un piano B. In fondo la questione è una sola: c’è chi ha le possibilità e chi no. In quale categoria rientro l’avrete capito da  soli, immagino.  Mi tocca ancora aspettare, pensai, tirando una lunga boccata di fumo velenoso. Mi alzai e andai via dal bar. Ero davvero stufo di tutto questo. Il tempo non aspetta nessuno, figuratevi uno come me.“il tempo non aspetta nessun uomo e non mi aspetta. si il tempo non aspetta nessuno e non aspetta me. sfrutta la tua estate, raccogli il grano. i sogni di una notte svaniranno all’alba. e il tempo non aspetta nessuno”(Time Waits For No One – The Rolling Stones).
A furia di prendere randellate, si diventa duri come il marmo. Così i minuti passano e anche le ore. E poi i giorni, i mesi e gli anni. Insomma, il resto del nostro tempo se ne va in un baleno, lasciandoci storditi e anche nauseati. Ma resistiamo ugualmente, con fatica teniamo duro di fronte a tutto. Siamo fatti così, noi uomini trascuriamo, però, che alla fine si diventa qualcun‘altro. E si è vecchi in un colpo solo.  Raggiungo  Cinzia al suo negozio di chincaglierie perché quando ho voglia di parlare con qualcuno lei è l’unica che ascolta con amore le mie peripezie. Non appena mi vede fermo sull’uscio della porta  del negozio, mi mostra un sorriso complice e avvicinandosi mi esclama schietta: “per essere qui suppongo che sei di nuovo nei guai, vieni dentro, dai” .”Abbiamo dei problemi questo è sicuro. abbiamo milioni di disoccupati. bambini che non sanno scrivere. bambini che non sanno leggere. ce ne sono di affamati e sovralimentati. il nostro capo alla TV baldanzosamente annuncia la parola di Cristo. cerca di pregare abbiamo bisogno di tener saldo il cammino. la forza dell’oscurità ancora è tra noi. deve essere un inferno vivere nel mondo. vivere nel mondo come fai tu.(It Must Be Hell – The Rolling Stones). Da ragazzi avevamo provato a stare insieme, dico come coppia. Non aveva funzionato, era finita che quasi ci odiavamo. Facevamo le cose pensando di compiacerci, ma in questo modo si combinano solo casini. In compenso, da allora non avevamo più segreti fra di noi. Scuoto la testa ed entro nel negozio. La guardo e stranamente non riesco a dire niente. Ero andato da lei pensando di raccontarle chissà cosa ma adesso non riesco più a parlare non mi viene niente. E per la prima volta mi sento a disagio. Le prendo la mano, lei sospira e si lascia andare:  “Bart quando esci dai sogni e vieni a vivere in questo mondo, quando lo farai?”. “il tempo può tirar giù un palazzo o distruggere il viso di una donna. le ore sono come diamanti non sciupatele. il tempo non aspetta nessuno non regala niente. il tempo non aspetta nessuno. e non vuole aspettarmi”. (Time Waits For No One – The Rolling Stones).
Me ne torno nel mio stambugio, afflitto e più tenebroso che mai. Non me la sono sentita di speculare ancora sulla sua bontà, sul suo garbo. Adesso è tempo di mettere le cose in chiaro con me stesso. Nella solitudine il divino se ne va via e sparisce per sempre. Eccola, già pronta una nuova angoscia da accudire. “A Scarlet Town la fine è vicina. Le Sette Meraviglie del mondo sono qui. Il bene e il male convivono fianco a fianco. Tutte le forme umane paiono glorificate. Metti il tuo cuore su un vassoio e vediamo chi lo morderà. Vediamo chi ti stringerà e ti darà il bacio della buona notte.”(Scarlet Town - Bob Dylan). Incontrai Rickie Lee Jones per caso, mentre giù dal cielo i sogni piovevano a grappoli sulla mia testa. Camminavo sonnolento e anche un po’ brillo alle porte della notte, quando ad un tratto da una macchina ferma con l’autoradio accesa sentii quella canzone. It's your last chance To check under the hood Last chance She ain't  soundin' too good, Your last chance To trust the man with the star You've found the last chance Texaco Well, he tried to be Standard He tries to be Mobil He tried living in a world And in a shell There was this block-busted blonde He loved her - free parts and labor But she broke down and died And threw all the rods he gave her” (The Last Chance Texaco).
Mi fermai ad ascoltarla sotto gli occhi guardinghi della coppia che stava sull’auto. Avevo i brividi che facevano le capriole sulla pelle. Ancora oggi,  riascoltandola, provo la stessa sensazione. E’ come se ad un tratto fossi passato con una ramazza su quella nuvola di polvere che copre i ricordi. Dopo tanto tempo, finalmente mi sono riconosciuto nell’ombra. Capita di rado, ma capita, che alle volte le cose che nascondiamo dentro di noi non marciscono e di conseguenza non si mettono a puzzare insieme al tempo che passa.
Ma i sogni che attraversano troppe cose, lasciano sempre e comunque una scia di rimpianti e nuvole. I primi due album di Rickie Lee Jones, l’omonimo e Pirates, sono stati un toccasana per tutti gli innamorati della notte, per chi è annegato nei sentimenti. Rickie Lee Jones è stata la duchessa incontrastata di chi si è fatto fregare dalla luna e dal randagio di Pomona e ciondolava scompigliato nell’animo appresso a quelle canzoni, come se anch’esso si trovasse con i suoi esecutori in una discarica di oggetti usati che nessuno voleva più. Cicche di sigarette, gabbie e barattoli, poltrone di pelle coi sedili sfondati, riviste ingiallite, un ventilatore arrugginito, la canna del gas, veleno per topi in bustina, una tromba di plastica, la carcassa di un cane, libri strappati, bottiglie vuote, pezzi di ferro, un caminetto, una lampada ad olio ed ancora cicche di sigarette, una tenda bruciata, un trenino elettrico. Tre seggiole e un tavolino. 
Sin da quando nei primi anni settanta si esibiva nei bar, Rickie Lee Jones amava fare cover. Nella sua discografia sono state una costante. Dotata di una voce che sa scavare in profondità, le sue interpretazioni riescono a tirare fuori quella parte di sfumature che precedentemente ci era sfuggita, rivelando significati nascosti e trasformando la canzone in una sua creatura. Girl At Her Volcano, il mini lp uscito nel 1983,  ne è un esempio lampante. In questi giorni “Il Diavolo Che Tu Sai” è uscito e ci racconta del suo lungo viaggio attraverso la musica. E’ un album così intimo che si possono sentire i battiti del suo cuore e vedere le cicatrici che l’hanno segnata. C’è profondità ed emozione, c’è il blues dentro queste canzoni che rappresentano tutti i suoi amori musicali. Per citarne uno su tutti, il Van Morrison stellare di Astral Weeks.
 Una produzione attenta, affidata a Ben Harper, risulta essere perfetta, mai ingombrante, talmente delicata da farci percepire in pieno questa intimità. Rickie Lee Jones canta nella sua splendida solitudine canzoni musicalmente ridotte all’essenziale che sono già belle di loro ma che, attraverso la sua voce che li scortica fin dentro le ossa, sembrano essere tutte nuove. E come se lei ci facesse l’amore con questi pezzi, li accarezza senza violenza, senza cinismo, con una tenerezza e una sensibilità di cui tutti noi ci siamo dimenticati.
Guardo la foto appesa al muro, è una di quelle fotografie ingrandite e ritoccate in una cornice ovale dorata. Risale a quando ero bambino e stavo in braccio a mia madre. C’è anche mio padre con i baffi neri che sorride. E’proprio vero, non si ha mai abbastanza tempo se non per pensare a se stessi. Mi ha fatto bene incontrarla ancora, mi sono sentito addosso lo stesso rovescio di pioggia arrivato attraverso quel buco nel cielo dal quale una notte di tanto tempo fa sono fuggito insieme a lei per le strade del mondo. ”Si la stella passava dolcemente, la corrente continuava a scorrere. si eravamo tranquilli e rilassati. e la guardavamo volare. e il tempo non aspetta nessuno. e non vuole aspettarmi. e il tempo non aspetta nessuno. e non vuole aspettarmi.” (Time Waits For No One – The Rolling Stones).

lunedì 17 dicembre 2012

L'Open di Carrom: il video



Sabato 1 e domenica 2 dicembre L'OrablùBar ha ospitato il Torneo Open di Carrom. Grazie all'abilità nostro filmaker Pablo vi propopiano alcune fasi della due giorni dedicata al biliardo da dita. Ricordiamo, a chi fosse interessato a questo gioco indiano, che i lunedì sera alcuni esperti mettono a disposizione le loro conoscenze a L'OrablùBar.
Buona visione.

mercoledì 12 dicembre 2012

Scarpe volanti


Seduto sui gradini della sua casa di legno osservò il deserto. Era ridotto a brandelli e, nonostante capisse che quella frenesia da tossicomane alcolizzato che lo dominava lo avrebbe portato diritto alla tomba, si accese l’ennesima sigaretta e bevve un lungo sorso di rum. Il cuore accelerò i battiti e lo picchiò nel petto nello stesso istante in cui un odore di merda sopraggiunse. Che strano, pensò. La notte lo attraeva e, nel contempo, lo spaventava; era scura e gelida ma per altri versi anche confortante. Dondolò su se stesso e raccolse da terra la Gibson color tabacco. Con la mano sinistra prese un accordo di Mi maggiore e, sommessamente, nella brezza leggera, tossì un blues rauco. Un coyote, celato nell’ombra, stette ad ascoltarlo.

Il whiskey dev’essere il mio letto di morte. Dimmi dove mettere a giacere la testa. Non con me è tutto quel che lei disse. Sul far del mattino. Se avessi un biglietto da un dollaro, credo, certamente andrei in città a bere sino a riempirmi. Sul far del mattino. (Dollar Bill Blues)

Quel giorno, prima che il cielo si facesse scuro e un vento freddo prendesse a soffiare, se la filò con il suo pick-up. Ci aveva caricato il necessario ed era sparito da quella città in cui non c’era nulla da fare, specie per un uomo schivo come lui. Guidò dall’alba al tramonto, osservando la pioggia cadere e contemplando sé stesso. Bere era diventato il suo chiodo fisso; nulla di cui vantarsi, certo, ma non era andata sempre cosi. Quando era bambino aveva un sacco di idee su come sarebbe stato il suo futuro e poi, crescendo, aveva ridimensionato tutto e si era limitato a parare i colpi, cercando di soffrire il meno possibile. Nessuno di noi può prevedere il futuro e che cosa ci succederà. Magari uno crede di riuscirci, ma non è vero. Ed allora facciamo cose insensate, balziamo di qua e di là, come cavallette impazzite, restiamo in attesa che le cose tornino a essere come non saranno più.

La stamberga di legno gli si era parata davanti all’improvviso, un giorno che si era spinto più in là del solito nei suoi pellegrinaggi attraverso il deserto. Quella baracca, che un tempo aveva dato riparo a viaggiatori solitari, hoboes e pionieri, cadeva letteralmente a pezzi, ma lui s’innamorò all’istante di quel luogo. Con una pazienza certosina la rimise in sesto e, alla fine, ci andò a vivere. Rientrò in casa e mise a posto la chitarra, si accovacciò sulla branda guardando le travi del soffitto. Un raggio di luce penetrava dalla finestra colpendolo direttamente sugli occhi. L’aria era fresca, bevve un’altra lunga sorsata. Si rimise in piedi, arrotolò una sigaretta e stette immobile per un lungo istante nella penombra. Afferrò nuovamente la chitarra è biascicò una canzone, una di quelle canzoni in cui si metteva a nudo. Una di quelle canzoni che feriscono fin dentro l’anima, se percepisci le voci e quello strano brusio delle cose che ci circondano.

Non devo raccontarti delle bugie Non credo che sia saggio Hai dei bei occhi Vorresti starmi alla larga non valgo molto come amante è vero ora sono qui e poi sarò via e triste per sempr.e Ma sono certo di volerti. Cieli pieni di argento ed oro. Prova a nascondere il sole. Non si può fare a lungo. (No Place To Fall)

Quando entrò in quel bar, si sedette su uno sgabello di legno accanto a dei messicani che bevevano e chiacchieravano tra di loro. Il banco era di mogano scuro. Di fronte, nel mobile dietro il banco, c’era uno specchio dove poteva osservare gli altri uomini dietro di lui. Notò che erano per lo più solitari, sbandati, assorti dentro i loro guai. Non fece in tempo ad ordinare, che la puttana che lo aveva preso di mira appena entrato si avvicinò con garbo e lo guardò dritto negli occhi. Loretta era bella da lasciarlo senza fiato, sembrava piccola e sperduta ed era diversa da tutte le ragazze che aveva incontrato. Lo sentì a pelle, gli fece un effetto dirompente, tanto da pensare che con quello sguardo lei potesse osservarlo fin dentro le viscere. Ma fu un attimo. Subito dopo abbassò gli occhi e quell’euforia svanì nel nulla, lasciando spazio solo alla paura, a quel brivido freddo che lo smarriva, all’angoscia senza limiti che lo permeava. Si sentì triste e colpevole di chissà quale misfatto senza che avesse fatto nulla di male.



Oh, Loretta è solo una ragazza da saloon indossa il sette sulla manica Balla come brilla un diamante Racconta bugie che adoro credere Ha 22 anni circa e occhi allegri color nocciola Butta via il mio denaro come cascate d’acqua Mi ama come vorrei amarla io (Loretta)

Sputò via la cicca che spense schiacciandola con la punta dello stivale. Stava alla finestra, dietro il vetro polveroso, e guardava la vecchia ferrovia in disuso. Tutto intorno regnava il silenzio, ma gli sembrò di vedere qualcosa e schiacciò la faccia nel vetro freddo. Di notte i vagabondi si nascondevano da quelle parti. Rannicchiati sulla terra fredda, con il corpo che gli doleva, sentivano i crampi alle gambe e alla schiena mentre aspettavano che il treno merci passasse per saltarci su. Gli erano sempre piaciuti i vagabondi perché anche lui, come loro, amava guardare le nuvole che se ne andavano senza meta nel cielo. Uomini dimenticati, quelli, che probabilmente avevano la colpa di avere il cuore al posto giusto. Uomini che celavano storie incredibili e conoscevano quelle ballate antiche che parlavano di banditi buoni come il pane, di ferrovie e di quanto era duro il mondo con la povera gente. Amava quelle canzoni, lo facevano sentire orgoglioso di ciò che era diventato. Il buon Dio li abbia in gloria i vagabondi, pensò.
Non si accorse neppure che si era fatto giorno. Nella piccola cucina preparò del caffè e su del pane raffermo spalmò del burro di arachidi. Mangiò, continuando a fumare tra un boccone e l’altro, ascoltando nel silenzio il proprio respiro. Era cresciuto in una famiglia facoltosa che si era arricchita con il petrolio. Negli anni della sua fanciullezza aveva cambiato più volte residenza per via degli affari di suo padre. Questi continui spostamenti non gli permisero di avere radici da nessuna parte. Durante il periodo universitario si era ben distinto, poi il buio e la paura lo vennero a prendere. In quell’alba fredda, strisciando come un crotalo, qualche ricordo si fece timidamente largo e si meravigliò non poco perché la sua malattia gli impediva di farlo. Quando i ricordi si spengono é come avere detto addio a tutto ciò che conosci, a ogni cosa che hai amato; il vento furioso ti sommerge, lasciandoti ansante e tremante, riempiendoti gli occhi di polvere e di ruggine. Cosi, a poco a poco, si muore.

Giorni pieni di pioggia Il cielo sta venendo giù ancora Mi sento proprio stanco di queste solite vecchie tristi canzoni, Bambina non sarà lungo il tempo prima che io allacci le mie scarpe volanti (Flyng Shoes)

Aveva il morale a terra ma, come per molti che soffrono di disturbi psichici, voleva sembrare sereno, dare l’impressione di essere perfettamente normale, quando sapeva bene che non era così. Il suo spleen lo portava alla deriva, doveva decidere solo se affondare lentamente o tutto in un botto. Bisognava assumere le redini del comando, tenendo una vita più regolata. La lampada ad olio era rimasta accesa e la baracca sembrava accogliente o cosi pareva ai suoi occhi. Una pioggia sottile iniziò a cadere. Dalla finestra imperlata di pioggia osservò la strada. Il vento aveva preso a soffiare. Mandò giù d’un fiato un bicchiere di whisky, si alzò e infilò una mano nei pantaloni, tirò fuori quel foglio raggrinzito su cui aveva appuntato quei nuovi versi e con la chitarra cercò una melodia.



Sui venti della tristezza la luce è dolente e le catene sono strette. La libertà sta cantando. Aggràppati al buio fino a quando non avrai cambiato canzone. La tristezza mi laverà e subito mi asciugherà. Il mondo mi nasconderà, ma lei saprà ritrovarmi e quando mi troverà mi porterà a casa. (When she don’t need me)

Aveva già inciso dei dischi ma non era per nulla soddisfatto dei risultati ottenuti. In quella capanna in mezzo al deserto stava cercando di capire dove sarebbe potuto arrivare. Il materiale che aveva scritto gli sembrava buono; qualche sua vecchia canzone, a furia di provarla e riprovarla, aveva preso più consistenza ed un rantolo di fiducia lo spingeva in avanti. La musica era la sua ancora di salvezza. Aveva il viso magro e nei suoi occhi si leggeva tutta la sua sofferenza, il suo male di vivere, ma avrebbe in ogni modo inciso quelle canzoni. Si tolse il cappello e fumando guardò lontano, verso il deserto. Scese lentamente i gradini che lo portavano fuori dalla baracca e prese a camminare tra i sassi. Un coyote lo osservò da dietro una siepe. Camminando prese a contare i passi e si sentì sospeso sopra il deserto; un breve attimo con le sue scarpe volanti. Si voltò è tornò indietro. Rientrò in casa e si sdraiò sulla branda cercando finalmente di dormire. In lontananza gli parve di sentire il fischio sottile di un treno.

Bartolo Federico

martedì 11 dicembre 2012

Moonrise Kingdom


Moonrise Kingdom
(USA 2012)
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola
Cast: Jared Gilman, Kara Hayward, Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Jason Schwartzman, Harvey Keitel, Tilda Swinton, Bob Balaban, Seamus Davey-Fitzpatrick, L.J. Foley, Jake Ryan
Genere: fanciullesco
Se ti piace guarda anche: Submarine, Stand By Me, I Goonies, Fantastic Mr. Fox, Rushmore
Uscita italiana: 6 dicembre 2012

Moonrise Kingdom è il film che avremmo voluto vedere da bambini, se da bambini fossimo stati degli indie.
Che poi fino ad ora tutti quelli di Wes Anderson sono stati film di stile, e naturalmente di stile indie, più che di altro. E forse pure questo. Uno stile impeccabile, fatto di un umorismo sottile, a volte ai limiti del comprensibile, altre volte troooppo radical-chic persino per me.
Protagonisti sempre una serie di personaggi stralunati e fuori dal tempo che sembrano usciti da qualche racconto del New Yorker, più che dalla realtà. Un regista intellettualoide, se vogliamo usare un’espressione tanto ma tanto odiosa. Per queste e per altre ragioni, prima di Moonrise Kingdom avevo apprezzato il Mr. Anderson, più che amato il Mr. Anderson.
Con Rushmore c’era anche andato vicino a farsi amare, grazie agli esilaranti scontri tra Jason Schwartzman e Bill Murray. E Fantastic Mr. Fox è una delle pellicole d’animazione più fantastiche degli ultimi anni. Il suo film probabilmente più celebre e cult, I Tenenbaum, mi è pure piaciucchiato, eppure non è riuscito a entrare nei miei cult personali. Le avventure acquatiche di Steve Zissou invece no. Quello proprio non mi è piaciuto. Anche quello superstiloso, per carità, però che due palle.
Fin dal suo delizioso trailer, il suo ultimo Moonrise Kingdom mi faceva pensare che questa volta sarebbe potuto scattare l’innamoramento totale. Sarà andata così?
Vediamo un po’…



Film dopo film dopo film dopo film, Wes Anderson sta disegnano sempre più non solo un cinema, ma un mondo suo. Come un David Lynch più fanciullesco e meno inquietante. Come un Quentin Tarantino senza sangue e con i personaggi più educati e raffinati. Come un Terrence Malick meno “divino” e più terreno. A proposito di Lynch, questo potrebbe essere il suo Cuore selvaggio. A proposito di Tarantino, questo potrebbe il suo Una vita al massimo (film sceneggiato da Quentin e diretto da Tony Scott). E a proposito di Malick, questo potrebbe essere il suo La rabbia giovane.
Al centro di tutto, come cuore della pellicola, batte infatti una folle fuga romantica. A compierla sono due ragazzini intorno ai 12 anni di età. Lui è Sam, il bambino più odiato del campo scout in cui passa l'estate poiché è un orfano ed è per questo considerato socialmente pericoloso e disturbato. Lei è Suzy, una che invece i genitori ce l’ha, ovviamente stralunatissimi e che sono interpretati dall’attore feticcio di Anderson Bill Murray e da Frances McDormand. Frances McDormand, fin da quel suo nome così letterario, non credo esista veramente. Non è una persona reale. Vive solo all’interno del cinema indie americano.

Comunque Suzy non è orfana, anche se vorrebbe esserlo: “Ho sempre desiderato essere un'orfana. Sono i miei personaggi preferiti. Penso che le vostre vite siano più speciali.”
E comunque Suzy, ragazzina alquanto turbolenta e con degli scatti improvvisi di violenza, è interpretata dall’esordiente Kara Hayward, una giovanissima attrice che se prosegue sulla buona strada potrebbe diventare – lo dico o non lo dico? certo che lo dico – la nuova Natalie Portman o la nuova Kirsten Dunst o la nuova Saoirse Ronan. Ok, l’ho detto. Mentre se prosegue sulla cattiva strada beh, può diventare la nuova Lindsay Lohan. Ok, ho detto pure questo.
E poi occhio pure all'altrettanto giovane e altrettanto esordiente protagonista maschile, Jared Gilman, uno che potrebbe diventare il nuovo idolo nerd per un'intera generazione.



Contro i genitori, contro la giovane età, contro la polizia capitanata da un grande Bruce Willis, contro gli scout capitanati da un Edward Norton finalmente tornato al grande cinema, da cui mancava tipo da La 25a ora del 2002. Contro tutti, i due giovani innamorati scappano. E poi?
E poi scopritelo da soli, guardando questa meraviglia di film. Non vi dico cosa succede non perché questo sia un thriller, sebbene alcune scene siano costruite con grande tensione, mentre i giochi di sguardi ricordano addirittura i western di Sergio Leone, l'uso delle musiche è a dir poco spettacolare e ci sono alcune sequenze meravigliose. Non vi dico altro perché questa è un'avventura, una grande avventura, che è meglio non sentire raccontare ma vedere con i propri occhi. E, inoltre, è la più bella storia d’amore dell’anno.
Dopo una schifezza come il To Rome with Love firmato Allen, mi ci voleva proprio un film come Moonrise Kingdom. Una visione in grado di farmi ritrovare fiducia, se non nell’umanità tutta, almeno nel cinema. E allora questa volta l'innamoramento totale per una pellicola di Wes Anderson è scattato. Perché? Perché Moonrise Kingdom è il film che avremmo voluto vedere da bambini, se da bambini fossimo stati degli indie.
(voto 9/10)

Cannibal Kid


lunedì 10 dicembre 2012

Due appuntamenti: yoga e burattini

Passato il mese di novembre dove siamo partiti con le nostre inizaitive a L'OrablùBar questo dicembre ci prendiamo un attimo di respiro per costruire il cartellone degli eventi che avranno lugo da fine gennaio a mrazo/aprile.
Nel frattempo però, in collaborazione con il centro sportivo Insport, vi segnaliamo due appuntamenti che avverranno a L'OrablùBar da non perdere.
Giovedì 13 dicembre 2013
HATHA YOGA e RADA YOGA
Presentazione attività yoga (in palestra alle 17.00)
e aperitivo indiano a buffet (a L'OrablùBar alle 19.00)
Un’occasione per conoscere i vari aspetti dello yoga, a volte poco conosciuto dagli occidentali, a volte frainteso. La pratica dell’hatha yoga con le sue osanos (posizioni), l’incontro con l’altro attraverso le posizioni di coppia. Le visualizzazioni, la percezione del respiro, le tecniche per calmarsi, per riscaldare il corpo o per rinfrescarlo.
Una via da percorrere per potenziare ciò che in noi è latente, per conoscersi meglio, un modo per “staccare la spina” e ripartire più carichi di energie e più lucidi.
Costo evento: 10 euro



Domenica 16 dicembre 2013
De' detto Il Cencio
Spettacolo di burattini di Elis Ferracini
a L'OrablùBar alle 18.00La storia ha per protagonista un bimbo di umili origini, che intraprende un viaggio, durante il quale passa attraverso diverse peripezie, che gli consentono di acquisire il sapere e l’esperienza per sconfiggere il terribile Re di Picche e la sua corte e restituire agli abitanti del regno le ricchezze così conquistate.
INGRESSO GRATUITO
Posti limitati. Prenotare allo 0283412369



giovedì 6 dicembre 2012

mercoledì 5 dicembre 2012

Sperduto nel diluvio


L’ultima luce del giorno se la inghiottì’ un mare che pareva di vetro. Nell’oscurità che atterrava a rilento cercò una soluzione, intanto che la luna si impossessava del cielo. In quella città in perenne movimento nessuno poteva sentirsi al sicuro, neanche lui. Come inseguito da una melodia irresistibile, si spostava di continuo, nascondendosi con le altre creature che brulicavano nell’ombra. Accese la radio tenendola a basso volume. Una pupa al silicone assieme al gorilla del suo boss mi ha detto che avevo ciò che serve, disse: ”ti accenderò io ragazzo mio con qualcosa di forte se mi suoni quella canzone dal ritmo funky” (Blinded By The Light - Bruce Springsteen).
Scese dall’auto e prese a camminare come faceva tutte le notti. Gli piaceva guardare i marciapiedi e le luci delle vetrine e gli piacevano quelle solitudini che arrancavano per le strade. Sentì la rivoltella con l’impugnatura di gomma che gli premeva sullo stomaco. Non si era mai fidato delle pistole automatiche, aveva paura che si inceppassero. Sempre solo come un cane bastardo, considerò. Ma i silenzi a volte fanno un po’ di bene, specie quando i ricordi si induriscono e non hanno più gusto a pensarli. Tutto in un colpo s’invecchia.”Beh, saltai, girai in tondo, sputai in aria, caddi in terra. Gli domandai quale fosse la strada del ritorno a casa. Disse:prendi la destra al lampione vai sempre dritto finché è notte, e poi, ragazzo, sei solo. (Blinded By The Light - Bruce Springsteen).
Da bambino con suo padre ci passava un sacco di tempo. Lui amava raccontargli le storie di quei musicisti del Mississippi che avevano viaggiato sulle strade impolverate. Storie che conosceva bene, essendo stato un appassionato di blues, ma anche un bravo chitarrista. Nel soggiorno seduto, su quel vecchio divano di velluto scolorito, prima gli cantava qualcosa, poi si accendeva un sigaro e, riempiendosi il bicchiere di uno strano miscuglio alcolico, con voce bassa prendeva a parlare. Per lui quei minuti e quelle ore, passati insieme a suo padre, erano stati momenti preziosi che aveva cancellato dalla mente dopo che questi morì. Una sera si era addormentato e non si era più risvegliato. Da allora Rocco con quella pena nel cuore si inasprii e, aspettando l’occasione che non arriva mai, s’incamminò sulle cattive strade. E non rimane altro che del sangue dove cade il corpo, cioè niente che si può vendere, solo cianfrusaglie all’orizzonte, un vero saluto da bandito. E dissi ”hey ragazzo! Credi che sia olio, è sangue ”mi chiedo a cosa pensasse quando è incappato in quella tempesta:o era solo sperduto nel diluvio? (Lost In The Flood - Bruce Springsteen)
Il 12 novembre del 1909 a Houston nel Mississippi nacque Booker Taliaferro Washington White, il primo di cinque fratelli. Bukka, come fu soprannominato, fu la raffigurazione vivente del dolore. Un uomo sensibile, lacerato nell’animo dalla vita durissima che condusse. Le sue vicende umane rispecchiarono in pieno la sua musica. Suonava un blues feroce, viscerale, capace di strapparti la carne di dosso e ridurti il cuore a pezzetti. Cantando con voce possente ed emozionale, ti scuoteva i sensi. Il suo fu il blues della solitudine, della fatica di vivere, del freddo interiore, di quelle anime che hanno sempre vissuto nella penombra bluastra del silenzio, agitandosi nell’anticamera dell’inferno.
Dal padre John, un manovale delle ferrovie, ma anche musicista part-time, impara a suonare la chitarra e, nello stesso tempo, un pastore della chiesa battista gli insegna a cantare. Ma non c’è spazio per la musica, la pancia è vuota e bisogna lavorare. A 14 anni trova occupazione in una segheria e si trasferisce da suo zio Alec Johnson, a Grenada. Ma quel lavoro è davvero troppo duro per un ragazzino anche se ben messo fisicamente. Così, con la sua chitarra fa fagotto e se ne va via errando per il Delta del Mississippi, mantenendosi suonando i suoi blues ancora acerbi. In uno di quei giorni fortunati che ad ogni uomo almeno una volta il buon Dio concede di avere, incappa in Charlie Patton che lo prende sotto la sua tutela. Un incontro che al giovane Bukka lascerà un segno indelebile dentro l’anima e nello stile musicale.”la mia pelle era come cuoio e il mio sorriso di diamante sembrava quello di un cobra. Sono nato triste e consunto ma ho bruciato le tappe”. (It’s Hard To Be A Saint In The City - Bruce Springsteen)
Era invecchiato senza accorgersene. Camminava ogni notte per la città per rifiatare almeno un po’. In periferia dove era nato, le luci non erano uguali a quelle del centro. Le ciminiere delle fabbriche avevano scurito i muri delle case e c‘era melma e puzza di piscio dappertutto. Il cielo, poi, era grigio come se vi fosse stata applicata una pellicola che l’offuscava. Si rese conto che lo avevano relegato a vivere in una grossa fogna, ad annerirsi sotto un sole artificiale. “Ero il re dei vicoli, potevo parlare un po’ sboccato. Ero il principe dei poveri incoronato là, fra i mendicanti, ero il vero profeta dei magnaccia, tenevo tutto sotto controllo. Un giocatore da bassifondi che poteva perdere solo la sua fortuna.” (It’s Hard To Be A Saint In The City - Bruce Springsteen). Del quartiere era diventato il boss. Con la galera aveva anche conquistato il rispetto della paura, ma certamente non quello degli uomini. Gli anni passati dentro quelle quattro mura, però, lo avevano reciso come il gambo di una rosa, indebolendolo invece di temprarlo. Non sapeva perché era successo, ma era andata così.
Bukka White solo con la musica non riesce proprio a sbarcare il lunario, per cui si vede costretto ad andare a lavorare nei campi di cotone. Ma il richiamo del blues resta sempre forte dentro di lui e, non appena possibile, scappa per andare a suonare nelle bettole o nelle feste. Così, ben presto riprende il cammino. Intorno agli anni trenta arriva a Memphis dove riesce a farsi apprezzare dalla comunità nera. Qui viene notato da un figlio di puttana come ce ne sono tanti sparsi per il mondo, un certo Ralph Limbo, un talent scout che possedeva un negozio di dischi e che, con la promessa di lauti guadagni, gli fa incidere dei pezzi per la Victor sotto il nome di Washington White, brani che restano per lo più inediti. La grande depressione rende la vita difficile a chiunque e Bukka White deve darsi da fare se non vuol morire di stenti. Per questo motivo fa i lavori più disparati, dal lattaio allo strillone, dallo sguattero allo spazzino, fino a diventare un giocatore professionista di baseball nel campionato di colore e tentando anche una carriera nel pugilato. Ma il diavolo è girovago e non ti dà il tempo di fermarsi. Si sposta ad Aberdeen e, finalmente, riesce a liberarsi del contratto con la Victor che non gli ha fruttato un centesimo. Succede però che, durante la solita lite, Bukka spara ad un uomo e lo uccide. Fugge ma viene presto catturato e mandato in prigione. Dopo poco tempo, tuttavia, riesce a evadere e a rifugiarsi a Chicago dove incide anche alcuni brani: Shake em on down e Pinebluff Arkansas. Nuovamente catturato, è condannato a sette anni di lavori forzati e viene inviato nella peggiore delle galere, la più dura, la più violenta, quella Parchaman Farm in Mississippi, che solo ad evocarne il nome mette terrore. Giudice dammi la vita stamane a Parchman Farm. Non voglio odiare così, ma ho lasciato mia moglie nel dolore. Oh, buona moglie, ciò che hai fatto è tutto andato. Ma spero che un giorno potrai udire il mio canto solitario. Ascoltate. Non voglio dire nulla di male se volete far bene, meglio star fuori da Parchman Farm. Cominciamo a lavorare al mattino, proprio all’alba, fino al tramonto. Questo accade quando il lavoro è finito, io sto a Parchman Farm, ma vorrei tornare indietro a casa dove spero un giorno di sopraggiungere. ( Parchman Farm Blues - Bukka White)
Doveva stare attento alla polizia, non voleva finire nuovamente dentro. Quella era l’unica cosa che gli faceva davvero paura, non avrebbe resistito più di un giorno questa volta. Ogni uomo è un anello del mondo, ma lui cos’era? Forse solo un bersaglio che passeggiava nell’oscuro della notte. “la notte era buia, ma il marciapiede illuminato e foderato della luce di vita notturna. Dalla finestra di un appartamento una radio suonava a pieno volume. Girato l’angolo, tutto ammutoliva improvvisamente. Entrai così nella decima avenue fuori gioco, la decima avenue fuori gioco. Sono solo, completamente solo. E tu, ragazzo, dovresti diventare un personaggio, sono solo, assolutamente solo, e non riesco ad andare a casa. (Tenth Avenue Freeze Out - Bruce Springsteen). Si era costruito una reputazione nel peggiore dei modi, con la violenza e i soprusi, scegliendo la parte sbagliata del mondo. Ma, se non altro, sapevi chi era. Non come i nostri governanti. Si era rifugiato nell’oscurità e poteva contare solo su se stesso. Come una bestia feroce si mimetizzava in modo perfetto, pronto a colpire la sua preda. Ma, adesso, ondeggiava nella risacca, come una foglia già caduta lentamente giù da un albero. Adesso aveva occhi che ballavano di nostalgia.
E’ solamente uno l’errore che ho fatto. Restare in Mississippi un giorno di troppo. (Traditional). La prigione di Parchaman, che è pari ad un campo di concentramento, è il regno della violenza e della crudeltà. Bukka White ci trascorre due anni ed è attraverso la musica che riesce in qualche modo a lenire quelle atroci sofferenze. Si esibisce per gli altri detenuti cantando e suonando i suoi blues che sono divenuti aspri e durissimi, perché esprimono tutto il dolore e lo sconforto della sua anima. In quel periodo registra insieme al musicologo Alan Lomax, inviato nel terribile penitenziario, alcuni brani per la Biblioteca del Congresso. Poco dopo quell’evento, viene liberato. Bukka, però, è ferito, traumatizzato dai suoi spettri che sono la prigionia, l’alcool e l’ossessione della morte. Adattarsi alla libertà, in queste condizioni psicologiche, non gli è per niente facile. Mi sento strano, Signore, credo che morirò. Mi sento strano, Signore, credo che morirò. Beh, non mi importa di morire, ma non sopporto di dover lasciare i miei bambini in lacrime. Guardo lassù quel terreno per la sepoltura. Guardo lassù quel terreno per la sepoltura. Sembra molto solitario, Signore, quando il sole tramonta.(Fixin’To Die - Bukka White)
Una brezza che pareva venisse dall’inferno, lo investi in pieno viso mentre camminava a testa bassa, là in fondo alla notte. Era molto tardi e la strada era silenziosa come un cimitero. Salì in macchina e il motore al primo giro di chiave rombò. Accese la radio ed alzò il volume : ”E guido un auto rubata in una notte buia. E dico a me stesso che andrà tutto bene. Ma corro nella notte e viaggio col timore di sparire nell’oscurità. (Stolen Car - Bruce Springsteen). Si sentiva come se gli avesse fatto schifo, all’esistenza. Non aveva niente di cui parlare, perché non gli capitava più nulla che lo interessasse. Avrebbe voluto uscire da quel business, ne aveva abbastanza di quella vita, ma come fare? Alla fine ne sarebbe valsa la pena? Se lo chiedeva intanto che l’auto sfilava lenta nelle strade deserte. Occorreva ritrovare il coraggio perduto, ripartire dalle stradine laterali. Aveva come la percezione che tutte le cose che aveva tenuto dentro, per tutto quel tempo, fossero uscite all’improvviso e si fossero messe tutte insieme a parlargli. Ma, questa volta, voleva capire fino in fondo quello che avevano da raccontargli. Ti decidi e scegli l’occasione da sfruttare. Guidi fin dove la strada termina e inizia il deserto. Fuori, in strada, guidi fino a che fa giorno. Impari a dormire di notte con il prezzo che paghi. (The Price You Pay - Bruce Springsteen)
Dopo Il servizio militare Bukka White torna a Memphis, dove vive insieme a un suo secondo cugino un certo Riley B.King (in seguito sarà conosciuto col nome di B.B. King), il quale apprende molto dalle vicissitudini umane di quel parente assai sfortunato. Ma, come succede a tutti i diseredati del mondo, Bukka scompare dalla circolazione. Nel 1963, un appassionato di blues ,il virtuoso chitarrista John Fahey riscopre questo enorme talento. A dirla tutta, l’anno precedente, fu il giovane Bob Dylan, incidendo Fixin’ To Die Blues nel suo disco d’esordio, a riaprire la passione per questo dimenticato randagio. Un contratto per la Arhoolie di Cris Strachwitz e varie esibizioni nei folk club fanno crescere l’interesse per il suo blues. Ma lui resta un uomo dolorante, la vita lo ha enormemente devastato e quel terrore profondo per tutto quello che ha visto e subito è troppo difficile da cancellare. Le sue canzoni restano un patrimonio per chiunque voglia conoscere l’autenticità del blues di strada. Canzoni che sono alla pari di quelle di Robert Johnson, Charlie Patton, Tommy Johnson o Blind Willie Mc Tell. Canzoni dimenticate dai più, che provengono dal profondo del cuore di un uomo arrivato in cima a tutto quello che di brutto può capitare. Riscoprirle significa toccare il suo dolore e quello di un intero popolo esule.
“Ricordati, Rocco,” concluse suo padre: “quando la tua pena non ti risponde più, quando si scivola, si sbanda, bisogna ritornare lì dove tutto ha avuto inizio, dove tutto ricomincia, anche solo per piangere”. Tutti hanno un segreto, Sonny, qualcosa che non possono affrontare. Alcuni passano la vita cercando di mantenerlo. Se lo portano dietro a ogni passo che fanno, finché un giorno lo abbandonano, lo abbandonano o si lasciano trascinare a fondo, dove nessuno fa domande o ti guarda in faccia troppo a lungo, nel buio ai margini della città. (Darkness On The Edge Of Town-Bruce Springsteen)
Bartolo Federico

Prima parte dell'incontro con Gianni Biondillo

Dopo avervi mostrato la prima parte della serata del 10 novembre eccoci con i primi due spezzoni video dell'incontro con Gianni BIondillo. Domani pubblicheremo gli ultimi due video. Buona visione







martedì 4 dicembre 2012

Holy Motors



Holy Motors
(Francia, Germania 2012)
Regia: Leos Carax
Sceneggiatura: Leos Carax
Cast: Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Michel Piccoli, Zlata, Jeanne Disson, Elise Lhomeau, Jeanne Disson, Leos Carax
Genere: totale
Se ti piace guarda anche: Synecdoche New York, Cosmopolis, Enter the Void

La bellezza? Si dice si trovi nell’occhio. Nell’occhio di chi guarda.”
E se nessuno guarda più?”

Holy Motors è Carax che scopa con Cronenberg che scopa con Kaufman che scopa con Jonze che scopa con Lynch che scopa con Noé (il regista Gaspar, non quello dell’arca) che scopa con Gondry che scopa con Kylie Minogue che scopa con Eva Mendes che scopa con una scopa che scopa con Carax che scopa con un pubblico di spettatori zombie che scopano con nessuno perché sono zombie e gli zombie non scopano si limitano a mordere altri spettatori che diventano altri spettatori zombie che mordono altri spettatori zombie e tutti insieme appassionatamente vanno a vedere Breaking Dawn Parte 2 con Robert Pattinson che fa finta di scopare con Kristen Stewart in realtà scopa con Juliette Binoche su una limousine che trasporta gli spettatori zombie in un cinema dove andranno a vedere il prossimo cinepanettone in cui De Sica scopa con Belen che scopa con Boldi che scopa con una scimmia che scopa con il protagonista di Holy Motors Denis Lavant che indossando una tutina da motion capture mentre scopa con Carax che scopa con una limousine che
la, la, la, la, la, la, la, la
la, la, la, la, la, la, la, la
la, la, la, la, la, la, la, la
la, la, la, la, la, la, la, la



Holy shit, che film!
Leos Carax, Leo Scaracchio per i detrattori, Leos 18 Carati per gli estimatori, nella scena iniziale guarda il pubblico. Il regista guarda il pubblico. Un pubblico di zombie al cinema.
Holy Motors è un invito a uscire fuori dagli schemi, dalle pareti fisse, un invito a prendere la “sortie” ed entrare in qualcosa d’altro, di diverso.

Enter the void. Entrate nel vuoto e salite su una limousine. Non insieme al Robert Pattinson yuppie moderno del Cosmopolis di David Cronenberg, bensì insieme a Denis Lavant, attore chiamato a una prova di recitazione all’interno della recitazione stessa.
Il protagonista di questo film è uno, nessuno e centomila. La sua professione è quella dell’attore ma, c’è un ma. Nel mondo di Holy Motors, tutto può succedere, anche perché non si sa bene se sia un futuro prossimo, oppure una visione distopica del presente, o più probabilmente e semplicemente (mica tanto, semplicemente) si tratta dell’interno della testa di Carax che proietta il suo contenuto per un pubblico di spettatori zombie che non possono capire.

Denis Lavant, uno nessuno e centomilamilionidimiliari, dicevamo. Attore dal simbolico nome di Oscar, o forse non attore bensì impersonatore di vari ruoli, da interpretare non dentro un film ma nel mondo reale: imprenditore, assassino, mostro, signora che chiede l’elemosina, tipo che si mette una tutina da motion capture come Andy “Gollum” Serkis, padre, padre morente, uomo con la fisarmonica e poi forse pure se stesso. Forse. Perché l’attore in realtà non esiste. Forse. O forse è la realtà a non esistere. Viviamo in un mondo talmente mixato con la finzione che è difficile capirlo. Forse.


Riflessione sulla realtà (o la non-realtà), riflessione sull’identità personale, sulla professione dell’attore, ma anche sul cinema. C’è tutto il cinema che più amo, dentro questi sacri motori. Le allucinazioni di David Lynch, la follia di Charlie Kaufman + Spike Jonze + Michel Gondry nessuno escluso, il trip alla Gaspar Noé, la maschera alla Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick o meglio alla Occhi senza volto di Georges Franju, il rapporto corporale con la limousine come e più del Cosmopolis di David Cronenberg, una nuova idea di intrattenimento e recitazione come nella serie Dollhouse di Joss Whedon o in Quella casa nel bosco di Drew Goddard (e sceneggiato sempre da Whedon) o nell’Alpeis di Giorgos Lanthimos. Ed è altro, molto altro ancora. Il tutto con uno stile Carax del tutto personale e senza scimmiottare nessuno e, quando vedrete il film, capirete che la parola scimmiottare non è usata a caso.
Più che Holy Motors, l’Holy Bible del cinema.

Un viaggio su una limousine tra passato, presente e futuro del cinema, e soprattutto dentro la testa di Leos Carax, in un mondo in cui sulle tombe vengono scritti i nomi dei siti Internet, in cui Eva Mendes è una Madonna statuaria accanto a un Cristo col pisello duro, in cui il protagonista è una maschera mostruosa che somiglia al tipo del video “Rabbit In Your Headlights” degli UNKLE, in cui le scene più vere sembrano quelle più finte e quelle più finte sembrano quelle più vere, in cui la scena della fisarmonica diventa la cosa più rock’n’roll vista quest’anno, in cui “la tua punizione è di essere te stessa e di doverci convivere”, in cui si suona il tema di Godzilla e in cui si suona “Can’t Get You Out of My Head” e poi Kylie Minogue appare veramente out of Carax head e ci regala uno splendido momento musical che altroché Glee e questo film non te lo puoi più togliere dalla testa.
Per non menzionare il doppio finale, doppiamente geniale e la fenomenale interpretazione multipla del protagonista Denis Lavant.

Leos “genio” Carax ha girato il film più finto e più vero che potrete vedere quest’anno, o il prossimo anno, o quando la distribuzione deciderà di mostrarlo anche al pubblico zombie italiano.
È la vita. È il cinema. È il cinema che prende vita. È Holy Motors.
(voto 9/10)
Cannibal Kid


I video de L'Ora di Raccontare


La serata del 10 novembre, quella che ha aperto le danze alle nostre iniziative, è ora possibile riviverla grazie alle riprese e al montaggio video del nostro videomaker d'eccellenza Pablo.
Partiamo con la chiacchierata/intervista, condotta da Giorgio Fenino e accompagnata alle letture da Agnese Leo, al 'Konte' e a Jacopo Ninni. Nei prossimi giorni pubblicheremo in due parti l'intervento di Gianni Biondillo. Buona visione.




 


venerdì 30 novembre 2012

Torneo Open di Milano

L'Associazione Culturale L'Orablù
in collaborazione con
Federazione Italiana Carrom e il Carrom Club Milano
presenta
TORNEO OPEN DI MILANO

Sabato 1/12/2012

Torneo di DOPPIO A COPPIE
iscrizioni ore 13.30 - inizio ore 14.00
Per l'occasione dalle ore 21 sarà possibile assistere
ad un'esibizione musicale degli allievi de
L'OFFICINA DELLA MUSICAdi Diego Centurione

Domenica 2/12/2012
Torneo di SINGOLO
iscrizioni ore 09.30 - inizio ore 10.00

Il torneo è aperto a tutti
Info e iscrizioni
paolo@carromclubmilano.it

Ingresso gratuito con tessera L'Orablù
L'OrablùBar - Piscina Comunale Via dante 67 Bollate - 02/83412369

giovedì 29 novembre 2012

Leggendo di leggende eccetera

Durante le mie vacanze di agosto ho letto un libro tra l’interessante e il noioso. Noioso (prima le notizie brutte) perché è una raccolta di racconti popolari e leggende, argomento non del tutto affascinante, perché si tratta di uno di quegli ambiti in cui tutto il mondo è paese, perciò le storie si ripetono. Sono racconti in qualche modo già sentiti, assomigliano sempre a qualcos’altro, anche quando sono tipici di una regione lontana. Ma non c’è nulla di strano in questo, infatti la peculiarità principale del genere “racconto popolare, fiaba, leggenda” è proprio la ripetitività, necessaria per poter tramandare le storie oralmente. Interessante per due motivi: innanzitutto perché si tratta di leggende e racconti della Lombardia, e non c’è modo migliore per conoscere una regione e la sua cultura che leggere, o ancor meglio, sentir raccontare, i suoi racconti popolari; in secondo luogo perché l’autrice, Lidia Beduschi, è una dialettologa e demologa quindi rispetta tutta la tradizione orale, cioè dialettale, traducendo fedelmente i racconti così come le sono stati raccontati, oppure precisando nelle note il tipo di modifica apportato al testo: il più delle volte si tratta di omissioni delle ripetizioni tipiche del racconto orale, come l’introduttore di discorso “dice”. Altri testi sono stati presi da riviste o da raccolte precedenti, e l’autrice riporta anche l’introduzione al testo fatta dagli studiosi che li raccolsero e pubblicarono allora.



L’introduzione a quest’opera è ciò che mi ha affascinata di più, molto tecnica e allo stesso tempo illuminante. Il lavoro del demologo non è affatto facile, e da quando questa disciplina si è sviluppata, sono stati fatti fior di studi sulla metodologia della raccolta di testimonianze popolari, ma anche sulla loro “popolarità”. Cosa significa che un racconto è “popolare”? Secondo me va bene dire che non rientra nella letteratura ufficiale, scritta, studiata a scuola, ma nel tempo è sorto agli studiosi anche un altro dubbio, infatti si era sempre considerato “popolare” ciò che era riconducibile al popolo, e si era sempre pensato che il “popolo” fosse la gran massa dei poveracci, separati da lor signori. In generale, quindi, la cultura popolare è stata sempre considerata come subalterna alla cultura alta, facendo sì che la frammentazione della documentazione apparisse come una caratteristica peculiare del genere, in quanto prodotto di un livello sociale basso e non istruito, quindi incapace di tramandare precisamente e omogeneamente le proprie storie, la propria cultura.

La frammentarietà non è la sola caratteristica che distingue la produzione orale da quella scritta, perché la prima e più evidente è naturalmente l’essere una produzione orale e non scritta, che sembra banale ma è fondamentale: un testo scritto è, secondo la Beduschi, un prodotto individuale dell’autore che se lo pensa e se lo scrive, poi qualcuno leggerà ma anche no, e in effetti non è necessario che ci siano lettori, per poter dire che un libro è stato scritto. Ma provate a raccontare una storia senza avere ascoltatori: chi non vi prenderebbe per matti? Io ad esempio lo penserei subito che siete fuori di testa. Un testo orale è, pertanto, un prodotto collettivo, le cui peculiarità sono determinate dall’esistenza di un pubblico e dal suo essere un testo orale. Mentre in un testo scritto le espressioni tipiche dell’oralità sono una scelta di stile (scelta di imitare lo stile orale), quelle stesse espressioni rappresentano il genere orale: servono per presentare la storia al pubblico, per coinvolgerlo, per stupirlo spaventarlo tranquillizzarlo; e non solo le espressioni hanno questo ruolo, bensì anche l’intonazione o i gesti di chi racconta la storia. Si tratta di un codice linguistico di difficilissima traduzione, perciò spesso la ripetitività e la povertà d’espressione (che ci sono sempre) all’interno di una fiaba saltano all’occhio solo quando questa viene messa per iscritto. Chissà se vi è mai capitato di sentire il racconto di un nonno o di una nonna, anche un banale racconto di vita quotidiana: gli viene data quell’aura di mistero antico che non riusciamo a riprodurre, quando raccontiamo a nostra volta la storia, anzi improvvisamente il racconto ci sembra così banale che ci chiediamo cosa ci avesse colpito nel sentirlo la prima volta; tutto sta nell’arte del raccontare, secondo me, che non è genetica né tipica dei vecchi, ma semmai tradizionale, e noi bambini moderni l’abbiamo persa. Con i racconti popolari infatti, secondo me non venivano tramandate solo le leggende del posto, o quelle della famiglia, ma anche la capacità di raccontare le storie nel modo giusto, in modo che, benché banali e stranote, risvegliassero sempre la stessa curiosità nel suo ascoltatore. Curiosità diversissima da quella di un lettore che legge per se stesso e in solitudine il suo libro, e al massimo dopo lo consiglia ad un amico, il quale a sua volta potrà provare lo stesso piacere di lettura, se lo leggerà per sé stesso. Invece un racconto orale non ha molta ragione o possibilità d’essere, se non viene raccontato oralmente e ascoltato da un pubblico.

Un’altra delle difficoltà del fare una raccolta scritta di racconti orali, quindi, sta nel cercare di non decontestualizzare il racconto, ma è praticamente impossibile se poi si raccolgono in una stessa opera racconti legati a momenti diversi di “vita popolare”, momenti che invece, assurdamente, coincidono con i momenti di “vita nobile o borghese”, a conferma del fatto che la cultura del racconto non è una cultura “alta” discesa a coinvolgere anche lo strato basso della società, né una cultura “bassa” che gli intellettuali hanno poi fatto propria e messo per iscritto “ufficialmente”, rendendole quasi omaggio, oppure sradicandola dalla sua culla. Anche il racconto orale, come quello scritto “letterario” ha una sua forma specifica, nonostante non sia stata ancora definita una tipologia di testi: “Leggende, racconti, aneddoti, per la loro diversa funzione sociale, presentano una incompletezza che è loro caratteristica […] Una testimonianza è sempre soggetta a determinate regole di composizione che limitano la scelta dell’informatore nei riguardi del contenuto che vuole trasmettere, e non solo del contenuto, possiamo aggiungere, ma della struttura formale contemporaneamente […] Offrono un indispensabile supporto mnemonico.”

Sia gli argomenti, sia la struttura della narrazione possono essere considerati universali, inoltre un racconto popolare non può ricevere un’etichetta geografica, perché come molte cose legate all’oralità (come la stessa lingua) non ha confini netti ma, spostandosi, si presenta piuttosto come un continuum di variazioni impercettibili che, se invece consideriamo solo il punto di partenza e il punto di arrivo, si mostrano come differenze nette. Io però non parlerei nemmeno di punto di partenza e di punto di arrivo se non a livello diacronico, infatti credo che il punto di partenza sia la notte dei tempi, il punto d’arrivo sia il giorno d’oggi, anche se spero che noi riusciremo a trasformalo in tappa intermedia verso le generazioni future di contastorie. La Beduschi parla anche di variazione sincronica, perché nello stesso lasso di tempo la tradizione narrata varia in base alla stratificazione sociale più che all’area geografica, ma contemporaneamente mette in dubbio una possibilità di distinzione, facendo l’esempio dei girovaghi e dei vagabondi, che si spostano dalla campagna alla città, portando con sé molte storie, che quindi entrano a far parte sia della tradizione contadina (tradizionalmente considerata “povera”) che della cultura cittadina (“ricca”); nomina anche il bisogno di miti consolatori che sarebbe all’origine di certi racconti, bisogno che infatti abbiamo tutti, ricchi e poveri, da sempre, anche quando inconsapevolmente. Le leggende si spostano, quindi, senza confini geografici né linguistici, tanto che è possibile ritrovarle simili in aree del mondo lontane fra loro per lingua, cultura e pure fisicamente, e semmai sono semplicemente adattate al contesto, difficile dire ora chi o dove fosse la matrice, tendenzialmente si affida la paternità al primo che le ha messe per iscritto, sbagliando di brutto, è chiaro, visto che esistono ancora popoli la cui lingua è solo parlata e non hanno una versione scritta e “ufficiale” della loro lingua, né pertanto delle loro tradizioni. A proposito di adattamenti, in Lombardia le storie hanno come protagonista il figlio furbo di un contadino nelle zone di pianura, il figlio furbo di un pescatore nelle zone lacustri, il figlio furbo di un pastore nelle zone di montagna; mentre rispetto ad altre regioni d’Italia, hanno come animale fantastico, buono o cattivo, il drago, comune però ad altre zone d’Europa a nord delle Alpi. Si tratta di motivi locali che adornano e rendono tipica una storia dalla struttura narrativa (più o meno) invariata in tutto il mondo.
Te capì?

Lo Spirito consiglia: il menù di san Bartolomeo (nelle foto); e il libro di cui vi ha parlato (almeno l’introduzione, dai): Leggende e racconti popolari della Lombardia di Lidia Beduschi.

Elle

mercoledì 28 novembre 2012

Sangue zingaro


Sua madre gli raccontò che quando nacque pioveva a dirotto da giorni e che Ft Worth - nello stato della stella solitaria - era diventata un’immensa pozzanghera. Le doglie le presero in anticipo di un mese e, siccome lui era il primo figlio, fu assalita dal panico. A quel tempo la zona in cui abitavano era abbastanza isolata e distante dall’ospedale. Suo marito era fuori per lavoro e non sarebbe rientrato prima di un paio di giorni. Tentò di chiamare aiuto per telefono, ma le linee erano interrotte per le forti piogge. Non sapeva che fare. Nonostante tutto cercò di vincere l’angoscia e di non farsi soggiogare dagli eventi .
Robert Lockwood era un tipo strambo, veniva da Chicago e viveva nella casetta di fronte. Come tutti i musicisti dormiva di giorno e alla sera suonava nei locali sparsi nei dintorni. Un tipo gentile, però. Quelle poche volte che si erano incrociati per la strada l’aveva salutata sorridendole. Ma lei non si fidava dei neri vagabondi che suonavano il blues. Si raccontavano strane storie su di loro, si diceva che avevano il diavolo in corpo e che erano assai pericolosi, bevevano come spugne e violentavano le donne, specie se bianche. Adesso quell’uomo bussava alla sua porta perché l’aveva sentita urlare e lei non aveva alternative.
Quando aprì l’uscio la pioggia veniva giù impetuosa, accompagnata da un vento gelido. Robert, avvolto in un impermeabile, era inzuppato come un pulcino. – Tutto bene, signora? – le disse, sorridendole. Ma lei non fece in tempo a rispondere che svenne. Quando riaprì gli occhi era distesa sul letto, l’uomo aveva già preparato l’occorrente per il parto e le rideva benevolo. Lo osservò, si senti sicura e le parve, da come si muoveva, che sapesse il fatto suo. Dopo un’ora di travaglio e di dolore per le contrazioni, Mason, prima usci la testa, poi le spalle e nacque. Mr Lockwood tagliò il cordone ombelicale, lo alzò in aria come Mosè e lo diede alla signora Ruffner. Fu in quel frangente che, ancora umido, il blues gli si attaccò addosso. A volte non si può barare con il proprio destino.
Il piccolo Mason crebbe a casa di Mr Lockwood. Ci andava ogni giorno dopo la scuola e ci restava tutto il tempo possibile. Dopo quella notte Robert era diventato uno di famiglia ed è in quella casa che il “Flaco” imparò i primi rudimenti della chitarra e i suoi segreti, conobbe i vari maestri del blues: T-Bone Walker, BB King, Jimmy Reed, Robert Johnson, Elmore James, Chuck Berry, Howling Wolf, John Lee Hooker, Otis Rush, Lightnin Hopkins e s’innamorò perdutamente di quel treno di fuoco che era la musica di Jimy Hendrix. Ma Mason era un talento e presto sotto l'aspetto tecnico superò il suo maestro.  Di questo Mr Lockwood ne fu orgoglioso. Oltre ad ascoltare e suonare il blues, Mason guardava il mondo con gli occhi della poesia e, per un ragazzo che si aggrovigliava nell’animo, fu naturale accostarsi al genio lirico di Bob Dylan e del poeta Arthur Rimbaud, ambedue anime inquiete, sovversive e vagabonde che gli fornirono gli spunti necessari per iniziare a scrivere le sue canzoni. ”Non parlerò, non penserò a niente: Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima e andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro nella natura, felice come con una donna. (Sensazione -Marzo 1870-). Ma anche Baudelaire e il conte Lautrèamont furono importanti nel suo bagaglio culturale. Aveva tracciato quella analogia tra il blues e la poesia francese perché reputava che entrambi lenissero il dolore pur biascicando tristezze.
La vecchia strada era piena di polvere che il vento gli sbatacchiava sul viso. Il sole fece brillare il suo dente d’oro con le iniziali incise. Fu allora che New Orleans gli comparve all’orizzonte. Arrotolò i sogni dentro un joint, accese l’autoradio che trasmetteva “Truck Stop Girl” e spinse sull’acceleratore. “Portami lungo New Orleans, non tenermi qui, devo suonare il blues a Bourbon Street, e scacciare suonando questa tristezza solitaria. Scommetto che i joints stanno piovendo a New Orleans. Se io rotolo e fumo, bambina, non ho bisogno di dormire. Si dice che le ragazze più carine sono in Texas, so che tu sei fuori da questo mondo, ma devo andare a New Orleans e trovare una ragazza creola” (Down to New Orleans).
Il caldo umido fu rotto da una pioggia a scroscio che gli sembrò un battimani e Bourbon Street si spopolò alla svelta. Mason rimise la chitarra nella custodia riparandosi sotto una pensilina. Aveva scritto diverse canzoni, ma non trovava nessun musicista che avesse voglia di mettersi in gioco con materiale nuovo. Tutti quelli che aveva incrociato desideravano suonare solo cover di Sly And the Family Stone. Quando non si ha fretta ci si perde facilmente per la strada. Ma questo non era il suo caso. Irrequieto e curioso inseguiva le parole come se gli cadessero dal cielo ed era necessario afferrarle prima che sparissero. Intanto che fremeva di vederle in faccia, una ad una quelle anime della notte, ammucchiate giù nel fondo.
Se vuoi una cosa con tutto te stesso, prova e riprova a volte finisce che la ottieni. Ora possedeva una band, The Blues Rockers, che aveva scelto con estrema pazienza. Voleva essere certo che i musicisti fossero in grado di catturare quel groove che rincorreva da quando Mr Lockwood gli mise in braccio la sua Gibson Les Paul. Non faceva altro che ripeterglielo “trova il groove Mason, il groove”. Cosi, insieme a Chris Clifton alla chitarra, Mike Stockton al basso e Willie Cole alla batteria, ogni sera per 200 sere all’anno si esibisce al Club 544 in arroventati set. La mano corre veloce lungo il manico della sua scuoiata Stratocaster, entra ed esce dalla canzone con fraseggi melodici fulminei impasta perfettamente il blues con il rock’n’roll e canta con una voce liquefatta alla Dylan. La sua innata simpatia gli fa conquistare il pubblico, che ogni notte è sempre più numeroso ed ha il sostegno di Memphis Slim e John Lee Hooker. Alla fine del giro si ritrova sotto il palco musicisti del calibro di Bruce Springsteen, Jimmy Page, Robbie Robertson, Carlos Santana, Stevie Ray Vaughan e Billy Gibbons degli ZZ Top, tutti a vedere il nuovo Santo in città. Quelle canzoni finalmente ottengono un contratto discografico con la CBS e un produttore, Rick Derringer.
Giù nei quartieri di periferia hanno spento le luci e i rinnegati vanno a zonzo come fossero gli ultimi romantici con in tasca piccoli diavoli blu da donare alla rosa di Tralee, che vestita di bianco è avvinghiata nelle braccia del Gitano. Danza, danza, danza la “Serenata” lungo le strade prima che la notte venga su, prima che la notte l’inghiotta per sempre. Riviste e giornali prestigiosi lo applaudono. Salta sul treno dei desideri andando in tour con Jimmy Page, ma tenendo i piedi ben piantati in terra. Da viaggiatore solitario sa bene che tutto può svanire in un attimo. E allora cerca di difendere la sua anima, di seguire la sua strada senza precipitare. Le vendite del disco “Mason Ruffner” sono esigue, appena settemila copie, ma non si scoraggia. Ha i giusti anticorpi per affrontare la situazione. Gli uomini di blues hanno la pelle dura. Durante il tour con Page, scrive nuove canzoni e, suonandole, si rende conto che ha del buon materiale, occorre solo metterlo bene a fuoco.
La CBS gli offre un’altra chance. Questa volta il produttore che lo affianca è un rocker gallese che conosce la materia. Nick Lowe sa come mischiare rock’n’roll e blues nelle giuste dosi e giocare sulla semplicità che è quasi sempre la carta vincente. La Stratocaster di Mason viene posta in primo piano, esaltata , rinvigorita e vengono fuori quelle influenze cajun che ha assimilato in Bourbon Street. Cosi “Runnin” diventa un piatto fumante di gumbo offerto da Dr John attraverso Stevie Wonder, cantata alla John Hiatt. “Gypsy Blood”, che è anche la title track del film “Steel Magnolias”, è magnetica e diretta. Una di quelle canzoni che chiunque pagherebbe per scriverla. Colpisce con licks e riffs che sono una prelibatezza ed è Bibbia per tutti quelli cresciuti nei bassifondi del rock. "Dio sa che sono nato zingaro, il mio cuore non ti può rubare,cieco ho messo la mano sulla mia valigia  viaggiando con la mente è quel sangue ,quel sangue zingaro che mi porta lontano dall'amore" (Gypsy Blood). Il video che l’accompagna è fonte d’ispirazione per questo blog. Da uomo libero che non ha smesso di andare, vedere e sentire, compone canzoni che sono un attestato all’indipendenza “Dancing on top of the world” e “Fightin’ Back” parlano chiaro sui suoi propositi. ”Distant Thunder” è una ballata carica d’amore e poesia, con sullo sfondo Bob Dylan e tutte quelle solitudini piene d‘amore e dignità che vagano libere sotto i cieli del mondo.
La copertina di Gypsy Blood ritrae Mason Ruffner come se fosse il Brando di “Fronte del Porto” o il James Dean di “Gioventù Bruciata” e alla fine il disco fa breccia nei cuori di chi ha giocato d’azzardo tutto quello che aveva ed ha preso la strada dell’inquietudine. Luccicando sotto la luna come una moneta nuova, gettando via gl’incubi rimasti a dondolare nel cielo. Dopo l’uscita del disco Mason va in tour come spalla agli U2 e Crosby Stills & Nash. Viene chiamato da Daniel Lanois per lavorare nel suo disco d’esordio “Acadie” e corona il sogno di una vita suonando per sua maestà Bob Dylan in “Oh Mercy” disco da queste parti molto amato. Nello stesso anno apre i concerti di Ringo Starr. Poi stacca la spina e fugge via.
Il rettifilo era infinito. Superò degli autocarri colorati e rallentò. All’incrocio vide le strade bianche di polvere correre parallele, non ci pensò due volte a svoltare. Percorse diverse miglia, poi si fermò in una pompa di benzina, comprò delle birre e ne stappò una. Non provava nostalgia o rimpianti, voleva tornare a casa perché adesso si trattava di decidere che direzione prendere. Dopo un periodo di tregua, abbastanza lungo da farsi dimenticare, ritorna con un album indipendente “Evolution” che è un mix dei due precedenti con la novità che lo si può ascoltare anche in versione acustica. Evolution contiene una canzone “Angel Love” di cui Carlos Santana si innamora e Mason riparte in tour. Ma, come tutti i cani sciolti, dopo un po’ ritorna a vagare per le sue strade secondarie dove il caldo e l’afa ammazzerebbero chiunque si avventuri, dove il cielo è una cascata di stelle e la terra risplende in tutta la sua nuda bellezza. Scrive ancora canzoni che si rifanno alla tradizione dei padri secolari del blues e a Memphis incide un nuovo album dal titolo emblematico, “You Can’t Win”, con una band, a detta di lui, la migliore che abbia mai avuto. Ad oggi è la sua ultima fatica discografica. "Tienimi la tua luce addosso, vengo a casa, la mia anima urla, il mio cuore mugola ho visto le ali della pazzia, tutto da lavare via, ma cose cosi' qui non accadono" (Keep on your light one for me).
Le luci dei lampioni sono spente e nell’oscurità qualcuno barcolla. I fuggiaschi hanno vestiti a coda di rondine. E’ quel buco nel cielo, è la follia che ci fa andare avanti sin da quando giovani e incoscienti ci spingiamo nel baratro dei sentimenti. Stavamo seduti su una panchina sulla riva del Mississippi, in faccia aveva stampato quel sorriso che gli ballonzolava. Quel sorriso adolescenziale animava chiunque lo incontrasse, era contagioso e rilassante. Nonostante il mondo lo ignorasse come musicista, lui era felice per come erano andate le cose ed era sempre pronto a cantare e suonare, sera dopo sera, dando il massimo di sé. Me lo disse mentre guardavamo il Mississippi scorrere lento. Solo una cosa aveva nascosto nel ripostiglio dell’anima, e questo lo aveva preservato da tutto: l’innocenza. L’innocenza di quando, bambino, guardava il mondo meravigliandosi . Ancora oggi, che di strada ne aveva percorsa tanta, si sentiva cosi.

Bartolo Federico

Serata Faber, le immagini



Alcune immagini della serata Faber - Non ho un faccia adatta alle mie canzoni svoltasi sabato 24 novembre a L'OrablùBar.