sabato 28 aprile 2012

Tracce nel deserto


 Il freddo non mi faceva paura, c’ero abituato ma non vedevo l’ora che si facesse giorno. Quel figlio di puttana di un segugio mi aveva odorato e mi era toccato starmene rintanato in quella buca dietro quel dirupo con i rospi che gracidavano e la faccia incollata alla terra umida. Col chiaro di luna e il cielo che sembrava un cuscino coperto di spilli ci vedevo meglio, avrei solo dovuto aspettare il momento propizio per passare quella cazzo di linea. Ma quella notte non mi fu possibile per cui restai vigile e attento ai minimi dettagli perché sono loro che poi ti fottono. Ero pronto anche a morire pur di andarmene.




Quando la luce del mattino arrivò mi scavò gli occhi e per un lungo momento non ci vidi più. Fuggivo dal mio passato, dal mio presente, da me stesso. Fuggivo.

Restai in quella buca tre notti prima di passare il confine. Se avessi potuto avrei camminato all’indietro per cancellare le mie tracce e scomparire per sempre, ma non si può tornare indietro a nostro piacimento. Quel che è fatto è fatto. “E proprio vero, la vita di alcuni è più incasinata di quelle di altri, com’è la tua in questo momento”, disse guardandomi dritto negli occhi Louie Perez.

Avevo guidato tutta la notte e ascoltato alla radio canzoni country -rock che avevo dimenticato come Colorado, Me and Bobby McGee, Deportee, Cant you see, Carmelita e guardato in faccia i miei fallimenti. Avevo aperto le mie cicatrici facendole sanguinare copiosamente, viaggiando immerso in quelle tenebre che mi avvolgevano, dove passato e presente diventavano tutt’uno. Cos’era stato a mandarmi in frantumarmi? Me lo chiesi più volte quella notte ma non seppi rispondermi.

Quando il giorno  aprìì gli occhi, il cielo si stava scurendo. Dopo un po’ cominciò a piovere fitto. Continuai a guidare. Poi, sfinito, mi fermai in quella piccola stazione di servizio. Prima di scendere mi guardai nello specchietto retrovisore, quasi non mi riconoscevo. Mi diedi una ripulita nella piccola toilette e andai a prendere un caffè. Il Signor Perez era un messicano che aveva passato la frontiera e il deserto era stato clemente con lui. Gestiva quella stazione insieme alla moglie ed era un uomo loquace e generoso perché non aveva dimenticato chi era stato.

Erano le dieci del mattino e stavo assorto davanti a una tazza di caffè ascoltando i suoi racconti quando mi chiese come mi chiamavo. Mi girai e guardai in un punto indefinito. Chi c’era lì? Forse il fantasma di me stesso. Un’identità sconosciuta che viaggiava con documenti falsi che vanno bene quando si ha voglia di continuare a vivere e sperare non per chi, come me, era piombato nel buio più assoluto.

Nell’altra vita ero stato un pilota dell’aviazione, poi un musicista. Ero nato in Alabama, ed ero cresciuto in Tennessee, poi mi ero spostato a Nashville. Lì avevo conosciuto Waylon Jennings che aveva portato al successo una mia canzone “Ladies Love Outlaws”, che anche gli Everly Brothers cantarono. Pubblicai il mio primo album e sparii per qualche tempo. Mi era difficile adattarmi, accettare tutti quei compromessi che l’ambiente musicale di Nashville pretendeva. Ma non tutto era perduto. Ritornai qualche tempo dopo con un nuovo stile rispetto al mio esordio. Scrissi canzoni più lunghe dai toni malinconici ed elettrificai il suono. L’album che pubblicai si chiamava “Border Affair”. A pensarci quel disco fu ben accolto, tanto che mi diedero la possibilità di farne un altro: “Naked Child”, dove diedi più spazio alla mia vena rock.

Ma senza accorgermene ero scivolato nella tossicodipendenza, ed ero sempre meno illuso da quell’ambiente di ipocriti che mi girava intorno, interessati solo a fare soldi, nient’altro che soldi. Completai un altro disco “The Dream Goes On”, sulla falsa riga del precedente, mentre il mio matrimonio andava a pezzi e con mio padre non avevo più rapporti per via della droga. Quando l’industria discografica mi chiese di diventare ciò che non potevo essere mollai tutto e feci perdere le mie tracce. C’era la fila la fuori di gente pronta a fare quello che loro volevano.

La voce di Louie Perez mi richiamò alla realtà . “Figliolo qual è il tuo nome?” Respirai profondamente e biascicai: “Lee Clayton”. Allora Lee, ti conviene prendere la tua roba dalla macchina è fermarti qui stanotte, il tempo non è messo bene e tu hai bisogno di riposarti prima di affrontare nuovamente il deserto. Non mi stupii di quell’invito, l’uomo che avevo di fronte si preoccupava di un emerito sconosciuto. Quell’uomo riusciva a vedere oltre. Pur sapendo che puzzavo di guai era pronto a tendermi una mano. Per lui non esisteva il passato, contava solo il presente. Mi leggeva come un libro aperto perché anche lui, un tempo, era stato un fantasma.

Louie e sua moglie quella sera mi coccolarono amorevolmente e mi sentii per la prima volta, dopo tanti anni, a casa. Quando andarono a dormire e restai solo, in quel retrobottega con il pavimento di legno che scricchiolava circondato da tutte le loro piccole cose appese, dal muro tirai giù quella vecchia chitarra con le corde arrugginite. Era da non so quanto tempo che non prendevo in mano uno strumento, ma era come se non ci fossimo mai lasciati. E nel silenzio del deserto, insieme ai miei ricordi, l’unica cosa in fondo solo mia. Suonai una mia vecchia canzone. “Non so davvero se riuscirò ad aprirmi abbastanza da cantarti questa canzone. Lo sai quante volte ho cercato di nascondermi, e so d'aver sbagliato, ma tu non sai cosa brucia di più nel dolore di non averti. Lasciami tentare di spiegare con le mie parole semplici quanto ti amo. Sento la tua voce ovunque e l'unica cosa che vedo e' il tuo viso e capisco quel che stai passando, così lascio che la vita scorra, ma a volte, se non mi trattengo, il mio cuore sprofonda nell'oceano, ma non sono qui di certo per rattristarti. Ti amo. I tuoi occhi bruciano dentro di me, nei sentimenti di cui ho paura, ma l'amore per te rende speciale quest'uomo, questo stupido che sono. Qualsiasi cosa io sia, ascoltami tesoro, ti amo e so d'averti detto che il mio nemico è chi ti dorme accanto stanotte e ti ho anche detto di non mentire, ma a volte ho mentito, ma credo verrà il giorno in cui la notte sarò con te, lo prometto ma fino ad allora prego Dio di proteggerti. Lo sai, ti amo piccola, ti amo, tesoro ti amo, amore ti amo, ti amo.” (I, LOVE YOU)

La luce del sole era ovunque. Bevvi un sorso d’acqua e infilai un cd. Il percorso era lento e tortuoso.

Federico Bartolo

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