giovedì 2 agosto 2012

Tutto il mondo è paese che vai usanza che trovi



A pagina cento io avevo già scoperto tutto.
Non l’assassino vero e proprio, ma il movente sì. Più o meno. A pagina cento avevo già individuato tre sospetti: 1) il marito innamoratissimo che non faceva domande alla moglie, 2) l’amante innominato (uno dei tanti) e 3) l’amica d’infanzia, nonché protagonista del romanzo (è bellissimo quando l’assassino è inaspettato). A pagina cento avevo già svelato il mistero, perché quel tipo scomparso di cui non si sapeva nulla, né nessuno sembrava voler sapere nulla, non poteva essere stato messo lì a caso. Quindi a pagina cento sbadigliavo chiedendomi se davvero la Läckberg avesse avuto la sfrontatezza di scrivere ulteriori 400 pagine sull’affetto che lega Erica alla sua casa d’infanzia, con le quali accompagnarmi mollemente fino all’ultima pagina, dalla quale avrei certo scoperto che il colpevole era proprio quello che sospettavo io, o almeno: che il segreto era proprio quello che credevo io, dato che di colpevoli io ne avevo tre. Però per un buon libro non conta solo sapere chi è l’assassino: infatti, come ho cercato di ripetermi da pagina cento a pagina centotrenta, conta anche la narrazione, se è fluida o balbettante, se ci rapisce o se rinnova la voglia matta di sbadigliare e subito dopo sbuffare e abbandonare.
Quasi ad ogni paragrafo si segue un personaggio diverso, e il punto di vista è di volta in volta del personaggio in questione e non quello obiettivo del narratore. La nostra cara Erica offre pertanto, quando tocca a lei e ai suoi pensieri e al suo punto di vista entrare in scena, uno spaccato di Svezia che mi ha fatto riflettere sulla famosa frase “tutto il mondo è paese”.
Io la Svezia non la conosco bene, e il fatto che nel romanzo siano indicate alcune usanze tipiche, mi ha entusiasmato quasi più della scoperta che ci avevo (in parte) visto giusto già entro pagina cento, perché sappiamo molto degli Stati Uniti ad esempio, grazie a romanzi e a film che da un secolo spopolano in Europa, ma dell’Europa stessa non sappiamo granché. Un’Europa riservata che appare poco in pubblico. Un tempo in Svezia si usava rovesciare le ultime gocce di caffè dalla tazzina sul piattino e berle attraverso una zolletta di zucchero (ho capito bene?); oppure usano mettere i guanti su una panchina gelida (è inverno e nevica, nel romanzo) per proteggersi da spiacevoli cistiti da freddo ghiacciato (??). Ma ho trovato anche abitudini più note.

“Effettivamente aveva avuto molto da fare, ma allo stesso tempo aveva trovato dentro di sé una pace mai provata a Stoccolma. Se si era single, nella capitale si viveva completamente isolati. A Fjällbacka, invece, non si veniva mai lasciati soli, nel bene e nel male. La gente si preoccupava dei vicini e vegliava su di loro – tutto quello spettegolare non la attirava in modo particolare -, ma ritrovandosi lì seduta a osservare l’affannosa rincorsa degli abitanti della city si rese conto che non poteva tornare a quella vita.”
Erica torna a Fjällbacka perché i suoi genitori sono morti e deve sistemare la questione della casa con sua sorella, ma di questo ce ne importa e non ce ne importa. Erica ha vissuto tanti anni a Stoccolma. Elle si ritrova sempre a leggere blog in cui si fanno i confronti fra l’Italia e il Paese estero in cui il blogger, temporaneamente o meno, vive o ha vissuto. Gli italiani spesso si lamentano di come al nord siano tutti più freddi e distaccati, mentre al sud puoi morire dissanguato per strada, visti i tempi d’attesa di un’ambulanza che sia una, ma senz’altro prima del tuo ultimo respiro tutti i passanti si sono prodigati per aiutarti.
Erica fa una giustissima osservazione che chiunque di noi può confermare, la differenza è tra città e paesello, non fra nord e sud (dell’Italia, dell’Europa, del mondo). Io almeno la confermo: in città si è tutti un po’ più estranei, anche nello stesso palazzo, perché vivere in un appartamento in affitto dall’altra parte della città rispetto a quella (più costosa) in cui si lavora, ovvero in cui si passano almeno quindici ore della propria giornata, fa sì che a volte i vicini non li si incontri mai, ma dà anche quel senso di temporaneità in attesa di un futuro migliore (una casa di proprietà in un quartiere più decente) che lascia lo stringere nuove amicizie, il coltivarle, il riuscire a fidarsi di persone che non sono originarie di quella città quindi è inutile chiedere in giro che tipi sono prima di lasciar loro un attimo i bambini per una corsa al volo al supermercato, all’ultimo posto della lista di cose da fare. Uno squillo ai nonni, alla collega, o portarsi i figli appresso incrociando le dita sulle conseguenze che questo avrà sull’idea originaria di “corsa al volo”, è la prima cosa che viene in mente in città. Salvo casi di incendio nel palazzo nel cuore della notte, spesso in città le occasioni di conoscere i vicini sono, assurdamente per chi proviene da un paese, quasi nulle. Io ho vissuto al nord in città, ma lavoravo e abitavo nello stesso quartiere: in questo modo si verificano quasi le stesse condizioni di un paese.
Una differenza di “accoglienza” però si nota anche tra il vivere nella propria città, quella in cui si è cresciuti, e l’andare a vivere in un’altra città. Nascere e crescere nella stessa città, frequentarci le scuole, viverci i primi amori, affrontare la propria indipendenza, cercare e trovare lavoro ci dimostra che la solidarietà (e la curiosità) tra vicini non è del tutto assente nemmeno in città. Trasferirsi da quella città ad un’altra città offre almeno in parte la stessa sensazione di spaesamento e di freddezza che se si arrivasse in quella città da un paesino della provincia: ogni posto nuovo e sconosciuto é freddo e distante, e per avvicinarsi ci vuole tempo, perché non c’è la testimonianza degli anziani garanti vissuti lì prima di noi.

Da pagina centotrenta in poi sono stata rapita dal racconto, in una maniera discreta e gentile, che mi ha subito riportata col pensiero al giallo della Christie appena finito, c’è però da dire che il finale, il vero colpevole e le ultime pagine - a partire dalla lettera, mi hanno lasciata perplessa, ma non ci ho fatto caso perché ero presa da altri pensieri.
 “Sotto la superficie i lati più oscuri dell’animo umano lavoravano anche lì come in qualsiasi altro luogo abitato. A Stoccolma il loro lavorio era palpabile, ma Erica era convinta che in una piccola comunità come quella fosse anche più pericoloso. Odio, invidia, avidità, vendetta… ogni sentimento veniva nascosto sotto un grande coperchio imposto dalla domanda “cosa dirà la gente?” tutto il male, la meschinità e la cattiveria avevano modo di fermentare tranquillamente sotto una superficie che doveva essere costantemente tirata a lucido.”

Tutto il romanzo ruota attorno a questo, al nascondere agli occhi della gente, al difendere dagli occhi della gente ciò che può essere considerato uno scandalo, né più né meno di quanto succede in tutti i paesini di campagna a sud della Scandinavia. A Stoccolma non è così, la gente si fa gli affari suoi, proprio come nelle grandi città italiane, dove per avere l’effetto paese devi sperare nel pettegolezzo della cerchia di amicizie o di colleghi. So di mescolare pettegolezzo, affetto delle persone vicine, richiesta e ottenimento di aiuto, apparenza fredda e apparenza calda, paura di ciò che direbbe la gente, cultura e mentalità nordica e mediterranea (indubbiamente differenti) in questa riflessione partita da un romanzo giallo, ma secondo me sono tutti atteggiamenti collegati, che non è difficile trovare un po’ ovunque, basta saper interpretare gli indizi per individuare di città in città la maschera giusta dietro la quale si nascondono, perché paese che vai, usanza che trovi, maschera che usi.


Elle

1 commento:

Ele ha detto...

La tua recensione è splendida..m'è venuta una irrefrenabile voglia di comprar questo romanzo e leggerlo..:-)Scrivi proprio bene!:-)