martedì 29 gennaio 2013

Les Misérables



Les Misérables

(UK 2012)
Regia: Tom Hooper
Tratto dal musical: Les Misérables di Claude-Michel Schönberg (musiche) e Alain Boublil (testi)
A sua volta tratto dal romanzo: I miserabili (Les Misérables) di Victor Hugo
Cast: Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter, Eddie Radmayne, Amanda Seyfried, Aaron Tveit, Samantha Barks, Daniel Huttlestone, Isabelle Allen
Genere: canta tu
Se ti piace guarda anche: Rent, Nine, Sweeney Todd, Moulin Rouge!

Mi ha sempre fatto ridere questa espressione: I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. E per forza, cosa dovevi fare? Incubare un incubo?
Comunque, “I Dreamed a Dream” è il brano più celebre e identificativo di Les Misérables, romanzo di Victor Hugo trasformato in uno dei musical di maggior successo nella storia di Broadway, a partire dagli anni ’80, quando era al top della popolarità (non a caso viene spesso citato nel romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho). Adesso è finalmente (finalmente?) diventato anche una pellicola cinematografica.

I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. Nel sogno, non guardavo questo film ed ero più felice. Avrei potuto impiegare molto ma molto meglio le 2ore e 40minuti della durata del musical. Non so, ad esempio avrei potuto cominciare a giocare a Ruzzle, il gioco di parole che fino a qualche giorno fa non avevo mai sentito nominare e di cui adesso invece tutti parlano. Ovunque. Su Facebook, sui blog, per strada. Sembra di essere finiti nell’alba dei giocatori di Ruzzle viventi. C’è gente al volante che non guarda la strada per giocarci. Ne hanno parlato persino al TG5! A quel TG5 dove di solito la cosa più nuova di cui discutono è il nuovo disco di un nuovo artista emergente, un certo nuovo Vasco Rossi.

I dreamed a dream, dicevo. “I Dreamed a Dream” è un brano di sicuro impatto, non lascia indifferenti. È riuscito persino a trasformare Susan Boyle, e ho detto Susan Boyle, in una superstar mondiale, e ho detto superstar mondiale.



Figuriamoci allora se Anne Hathaway, grazie alla sua intensissima interpretazione del film e soprattutto di questo brano, non riuscirà a portarsi a casa uno scontatissimo Oscar come miglior attrice non protagonista, dopo aver già vinto ai Golden Globes.



Non fraintendetemi, Anne Hathaway qui è davvero bravissima e l’Oscar sarà anche meritato, non certo un furto. Però non è il genere di performance recitative che preferisco. Troppo sopra le righe. Troppo eccessiva. Un talento troppo sbandierato. Come nel campo delle performance musicali fanno Andrea Bocelli, o Celine Dion o Mariah Carey. Nessuno mette in dubbio che abbiano un gran talento vocale, però io personalmente non riesco a sentirli se non munito di appositi tappi per le orecchie.
Anna Hathaway con la sua intepretazione breve ma intensa, pure troppo, rientra comunque tra le note più positive di questo Les Misérables e la scena in cui canta “I Dreamed a Dream” è impressionante per bravura recitativa. Il regista Tom Hooper invece strabilia parecchio di meno. Si limita a mettere la camera fissa su di lei e far compiere tutto lo sforzo all’attrice. Così sono capaci tutti.




Il film gode di una manciata di altre buone intepretazioni: Hugh Jackman se la cava bene, ma nel suo caso l’Oscar sarebbe davvero eccessivo. Anche perché è nominato come miglior attore non protagonista, quando in realtà è più protagonista che non protagonista, ma vabbé… Bravi poi Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (entrambi già nel musical burtoniano Sweeney Todd), protagonisti dei siparietti più divertenti, in grado di alleggerire un pochetto la situazione di un drammone che stava diventando insostenibile, in cui alle disgrazie personali dei miserabili protagonisti si aggiungono pure quelle legate alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Va bene il dramma, va bene il melodramma, però Les Misérables più che un semplice drammone è un invito al suicidio.
A colpire in positivo, oltre ad Anne Hathaway, sono soprattutto i volti più nuovi: il bambinetto Daniel Huttlestone è il protagonista del momento musicale più figo, la scena in cui canta convintissimo “Look Down (Beggars)”. Perché sì, questo Les Misérables ha anche dei momenti buoni. Peccato che su 2 ore e 40 minuti ci siano giusto quelle 2 ore di troppo ad appesantire il tutto.
Non male anche l’emergente Samantha Barks, che arrivava già dalle versione concertale del musical. A lei è affidato l’altro brano più celebre de Les Misérables, ovvero “On Your Own”. Più celebre almeno per me, visto che lo conoscevo grazie all’interpretazione di Katie Holmes/Joey Potter in Dawson’s Creek. Pensate un po’ voi su quali solide basi poggia la mia cultura.



Tra gli altri giovani attori da tenere d’occhio, occhio appunto poi anche ad Aaron Tveit, già intravisto in Gossip Girl, e alla piccola Isabelle Allen, quella dell’inquietante manifesto della pellicola.
Mi ha convinto di meno invece Amanda Seyfried. Sey fregna, okay, ma il musical non mi sembra troppo nelle tue corde, cara Amanda. Continua a non dirmi nulla quindi Eddie Redmayne, già anonimo protagonista di Marilyn (dove non era Marilyn, ma il giovane che ne era innamorato, nel caso aveste dubbi in proposito). Io sono il primo a sponsorizzare i giovani attori britannici, lui però no. Sarò comunque felicissimo se mi smentirà in futuro, ma di certo anche lui non mi sembra molto a suo agio con il musical e a livello vocale è il più miserabile del cast.
Se la cava a cantare Russell Crowe, d’altra parte è pure il leader di una rockband, i Russell Crowe & The Ordinary Fear of God, però dentro Les Misérables sembra davvero un pesce fuor d’acqua. Non che ci siano numeri di ballo, perché questo è uno di quei musical in cui non è che si balla. Si canta, sempre e soltanto. Il roccioso Russell Crowe comunque pare uno che si aggira in scena chiedendosi: “Ao’, io so’ Massimo, er Gladiatore. Che ce faccio in ‘sto musicarello per effeminati?”.

La pellicola viaggia quindi a corrente alternata, tra intepretazioni, canzoni e scene più o meno apprezzabili. Il tutto tenuto insieme da una cura tecnica impeccabile, abiti e scenografie per carità magnifici, e dalla regia del menzionato Tom Hooper.
Riconosco a Tom Hooper di avere stile, un suo stile. Che poi a me questo stile faccia schifo, è un dettaglio non da poco. Adesso non so bene neanche quali termini tecnici sono più appropriati per descrivere il suo modo di girare. Propone spesso e volentieri delle inquadrature sbilenche, come fosse un Terry Gilliam privo però di tutto il talento visionario. Privilegia poi i primi piani e, come dire?, schiaccia la messa in scena, toglie profondità. Magari è solo un’impressione mia, ma quando guardo un suo film mi sento schiacchiato. Mi sento soffocare. Mi manca il respiro. Sto male fisicamente. È per questo che, dopo la già fastidiosa esperienza de Il discorso del re, quello che ha fatto una gran rapina agli Oscar di due anni fa, non ho mai visto il suo acclamato film d’esordio Il maledetto United, nonostante il Manchester United sia una delle mie squadre preferite. Perché ho paura del suo cinema. Mi fa stare male, maledetto Hooper.




La regia di Tom Hooper mi ha fatto stare male anche questa volta, nel caso ve lo chiedeste, ma non è la sola cosa ad aver avuto un effetto devastante sulla mia visione del film.
Non ho mai visto il musical da cui è tratto, quindi prendetele come considerazioni basate unicamente su supposizioni, ma un problema di Les Misérables il film è che ha troppo rispetto di Les Misérables il musical. E, per quanto riguarda gli adattamenti, l’eccessiva fedeltà per me non è mai un gran bene. Nel passaggio da un media a un altro vanno operate delle scelte, anche spietate se necessario. Guardando Les Misérables ho avuto l’impressione di un lavoro che a teatro sarebbe funzionato alla grande, ma su pellicola meno. Perché?
Perché questo musical è troppo… musical. Troppo cantato. I dialoghi sono pressoché inesistenti. Una scelta interessante, rischiosa, estrema. Dai risultati però devastanti per la psiche del miserabile spettatore. Terminata la visione del film, mi sono chiesto perché le persone intorno a me parlassero. Parlassero e non cantassero. Se odiate i musical quindi vi consiglio di girare al largo, perché questo film potrebbe farvi lo stesso effetto del sole per i vampiri: provocarvi combustione spontanea.





Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un grosso fan dei musical. Ultimamente però ho apprezzato parecchio alcune rivisitazioni originali del genere, come Moulin Rouge! e Dancer in the Dark (che al confronto di questo era quasi una commedia goliardica), così come ho seguito con interesse il Glee dei primi tempi e pure l’altra serie musical Smash. Non partivo quindi del tutto a digiuno dal genere. Però vi assicuro che, se non siete fan hardcore dei musical, 2 ore 40 minuti senza pause, tutte cantate, TUTTE cantate, vi faranno impazzire.

Ma perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeee?
Vi fa così tanto schifo parlareeeeeeeeee?
A un certo punto non se ne può proprio piùùùùùùùù
e così non mi è restato far altro che invocare Belzebùùùùùùù
Perché diavolo diavolo diavolo
(tutti in coro) DIAVOLO DIAVOLO DIAVOLO
perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeeee?
Qualcuno me lo vuol spiegar?
qualcuno me lo sa spiegar?
La la la la lalaaaaaaa?
Les Misérables ti mando fuori di testaaaaaaa.
Les Misérables ti fa  gridare: “Ma bastaaaaaaa!”.

Poi basta. Mi è passata.
Dopo due giorni in cui sono andato in giro per strada a cantare e la gente, tra una partita a Ruzzle e l’altra, mi guardava come se fossi pazzo, alla fine l’ho capito chi sono les misérables del titolo: noi poveri spettatori.
(voto 5/10)Cannibal Kid

lunedì 28 gennaio 2013

La musica è sempre più blu - fase due: le votazioni
12 anni di musica alternativa
Italian Trash


Amici followers, è tempo di verdetti per LA MUSICA E' SEMPRE PIU' BLU!


Ha infatti inizio oggi la seconda fase della gara, nella quale le canzoni proposte si batteranno in uno scontro all'ultimo voto per aggiudicarsi i posti per la finale! 213 canzoni totali, ma soltanto 12 accederanno alla finale, e come ogni festival che si rispetti il giudizio spetta al popolo; il popolo della rete ovviamente...

Per ogni categoria saranno scelte le 3 canzoni più votate, canzoni che approderanno alla finale di sabato 16 febbraio, può votare chiunque, senza necessariamente essere iscritto al contest, e per farlo basta selezionare il vostro pezzo preferito nel sondaggio. I sondaggi permettono una scelta multipla fino ad un massimo di 9 preferenze per ogni categoria; la votazione per ogni categoria è permessa una sola volta per ciascuno, onde evitare ondate di votazioni che inficerebbero il risultato finale. Da questo momento hanno inizio ufficialmente le votazioni per le categorie "12 anni di musica alternativa" e "Italian Trash", i sondaggi si chiuderanno sabato 2 febbraio per lasciare spazio alle votazioni per le successive categorie.

Nota importante: La categoria Italian Trash contiene il peggio del peggio della musica italiana selezionata dai partecipanti, quindi ricordate che va votato il pezzo peggiore!

Su questo, come sugli altri blog che partecipano al contest, potete ascoltare tutte le canzoni in gara (li trovate sempre sulla colonna a destra), non vi resta che prestare bene orecchio e fare la vostra scelta!

E che vinca il migliore (O il peggiore...)!

martedì 22 gennaio 2013

Django Unchained


Django Unchained
(USA 2012)
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Cast: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Kerry Washington, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, James Remar, Nichole Galicia, Don Johnson, Franco Nero, Russ Tamblyn, Amber Tamblyn, Jonah Hill, Zoe Bell, Bruce Dern, M.C. Gainey, Michael Bowen, Quentin Tarantino
Genere: western tarantinato
Se ti piace guarda anche: Django, Gli spietati, Lo chiamavano Trinità, Il buono, il brutto, il cattivo, Bastardi senza gloria

Il bello di Quentin Tarantino è che da una parte sai già cosa aspettarti, da ogni suo nuovo film, e dall’altra sa sempre stupirti. Sorprenderti come il Puffo Burlone con i suoi pacchi esplosivi. Sai già che ti scoppieranno in faccia, ma non puoi fare a meno di aprirli.
Quentin Tarantino può citare, rubare se vogliamo, idee e scene da altri film, dalla Storia, dai cartoni, dai fumetti, ma non imita nessuno. Una pellicola di Tarantino è una pellicola di Tarantino. Ha un suo stile personale, unico. Quando vedi un suo film, sai che è un suo film. Questo però non significa che il Quentin ripeta sempre la stessa pellicola. Tutt’altro. Quentin applica il suo stile a generi e a storie diverse, ultimamente anche a Storie diverse, evolvendosi e cambiando. Se vogliamo, provando persino a maturare. Cosa che continua a non riuscirgli del tutto e ciò è un bene. Tarantino resta sempre un bambinone. Un eterno fanciullo che ha mantenuto intatto il potere di stupirsi e di stupirci ancora e ancora e ancora e ancora.
Django Unchained è probabilmente il suo film più maturo. Allo stesso tempo, è comunque un film cazzaro, spassoso, folle, splatter e divertentissimo. Quentin insomma è come Peter Pan. Un Peter Pan imbastardito. Non crescerà mai. E Dio lo benedica per questo.

Da dove partire, per parlare di un film come Django Unchained?
Non lo, sono emozionato. Davvero. Porcalaputtenabasterda. L’ha fatto di nuovo. It’s Quentin, bitch. Oops, he did it again. Perché sto citando Britney Spears?
Non lo so. Sono andato nel pallone, ecco perché. Mi emoziono io, a dover scrivere di un Mito come Quentin. Mi trasformo in un fan scatenato allo stato terminale.
QUENTIN? DOV’ È? DOV’ È? AAAAAAH! VOGLIO IL SUO AUTOGRAFO!!!

Ricomponiti, Cannibal.
Ricomponiti.


Dunque. Django Unchained, dicevamo.
Django Unchained è una disamina profonda e acuta sul razzismo che attanagliava l’America Bianca alla vigilia della Guerra di Secessione. Un omaggio al cinema western, allo spaghetti-western in particolare e più ancora nel particolare al Django di Sergio Corbucci con Franco Nero, qui presente in un simpatico cameo. Un film fiume su due (anti) eroi molto particolari per il genere: un tedesco ya e un nero yo. Per quanto poco io me ne possa intendere di cinema western, ed è davvero ma davvero poco, non i due tipici protagonisti di un film western.
Nella seconda pellicola della sua “trilogia storica”, Quentin Tarantino continua a riscrivere la Storia a suo piacimento. Dopo i nazisti di Inglourious Basterds, la sua ultraviolenza prende di mira gli schiavisti e il Ku Klux Klan. Quentin è un Robin Hood che uccide i ricchi per dare ai poveri. Ai poveri intesi come le vittime della Storia.
La Storia vera è andata così?
No, purtroppo no. Ma questo è Cinema, non è Storia. Qualcuno vada a spiegarlo a Steven Spielberg, autore di un Lincoln impeccabile in quanto a lezione di Storia, decisamente più carente in quanto a invenzione cinematografica. Diciamo che se fossero prof. del liceo, Spielberg sarebbe il saccentone di ruolo che sei costretto ad ascoltare in silenzio se no ti sbatte una nota sul diario, mentre Tarantino sarebbe il prof. cazzaro supplente che arriva in classe, fa un paio di lezioni che ti cambiano la vita e ti fanno credere che la scuola sia davvero una cosa utile e poi viene cacciato dall'istituto per aver fatto sesso con una studentessa e sniffato coca nei cessi.
Del proffone Spielberg ci sarà comunque tempo di parlarne, quando? A suo tempo. Non facciamoci prendere dalla foga. Cerchiamo di mantenerci lucidi e non divagare in troppe digressioni. Proprio come fa Tarantino in questo suo ultimo lavoro. Qualche flashback c’è, ma è molto più contenuto rispetto al suo passato. Tarantino è uno che ci sguazza, in flashback e deviazioni di percorso inconsuete, però qui sembra essersi quasi imposto di non eccedere e di provare a seguire un percorso più lineare. Django Unchained è il suo film più lineare. Cosa che non significa assolutamente sia privo di fantasia, come da qualcuno ipotizzato. La sfida anzi è stata quella di provare a domare il suo genio dirompente e schizofrenico. Senza imbrigliarlo. Soltanto, cercando di disciplinarlo maggiormente. Il genio di Tarantino resta sempre un puledro libero di scorazzare dove vuole. Non si è trasformato in un noioso war horse, tranquilli.

Quentin ha allora provato a raccontare questa volta una storia più lineare, diretta, meno ingarbugliata. Ha ricercato la classicità. Quello che ne è uscito, come al solito, è la sua versione della classicità e questo è un western, sì lo è, ma è la sua versione del western.
Cosa che tradotta significa: piacere godurioso. Piacere godurioso allo stato puro. Anche per chi come me al solo sentire la parola western comincia già a sudare freddo.
Questa volta, Quentin ha tenuto giusto qualche flashback, non troppo numerosi, e ha rinunciato alla struttura a capitoli esibita in Kill Bill e Bastardi senza gloria. Tara però è pur sempre Tara, non si smentisce mai, e quindi pure qui possiamo comunque intravedere delle divisioni piuttosto nette tra le parti del film.

La prima parte è di presentazione ai due protagonisti principali, i Bud Spencer e Terence Hill della situazione, che poi con Bud & Terence non è che abbiano molto a che vedere. Il cruccone è Christoph Waltz, magistrale, gigionissimo, grandioso. Il black cowboy è Jamie Foxx, meno sopra le righe rispetto agli altri attori del cast ma di nuovo in gran spolvero come in Collateral, la pellicola che l’aveva rivelato, e in Ray, la pellicola che gli aveva permesso di vincere il premio Oscar. Da allora la sua parabola era caduta pericolosamente nella fase calante e anche i suoi tentativi di carriera in ambito musicale come cantante R&B, per quanto dignitosi, non sono riusciti più a portarlo a quei livelli. Fino all’arrivo del solito Tarantino, in grado in passato di resuscitare carriere ben più moribonde della sua e a cui questo Django non potrà che fare bene. All’inizio, Tarantino per il ruolo da protagonista voleva Will Smith, ma (per fortuna) a causa di un cachet superiore a quello di Nicole Minetti per una serata in disco non se n’è fatto nulla. Meglio così.
Se uno parlando di presentazione dei protagonisti può pensare a una scena introduttiva di pochi minuti, non ha fatto i conti con la megalomania di Tarantino. La sua è una presentazione con i controcazzi che va avanti all’incirca per un’oretta buona. Bisogna introdurli bene e quindi ci vuole il tempo che ci vuole.
Una delle qualità che ammiro di più di Quentin, oltre alla sua capacità/facilità di creare dialoghi stellari, è che ama i suoi personaggi. Non li butta lì dentro al film a caso. Non li getta in mezzo a una strada come cuccioli spaventati. Lui li ama, i suoi cazzo di personaggi. È anche per questo che gli attori quando lavorano con lui danno sempre il massimo, perché si trovano con dei character che dietro hanno una storia, un contesto, una vita anche all’infuori della pellicola.


Dopo una serie di eroine donne, Quentin questa volta è tornato al passato. A quando ai tempi de Le iene era accusato di maschilismo, teoria poi ampiamente demolita a colpi di pistola da Jackie Brown, di sciabola dalla Sposa di Kill Bill, a cazzotti dalla girl band di Grindhouse - A prova di morte e con il fuoco da Shosanna di Bastardi senza gloria. Forse un giorno vorrò smontare anche le accuse di maschilismo rivolte a un altro regista geniale come Lars Von Trier ma, visto che potrebbe risultare un’impresa parecchio impegnativa, per il momento preferisco tornare a occuparmi di Quentin.
In Django Unchained, ci regala allora una lunga intro in cui impariamo anche noi ad amare questi personaggi come fa il regista. C’è spazio inoltre per una scena siparietto esilarante sul Ku Klux Clan, in cui viene utilizzato il Dies irae di Verdi e compare persino Jonah Hill. Un momento comico esilarante, così come allo stesso tempo un’altra grande rivincita e sberleffo del regista contro la Storia e contro ogni razzismo. Alla faccia di chi (non faccio nomi: Spike Lee) ha il coraggio di accusarlo di essere razzista.

Dopo di ché, il film entra nella sua seconda fase. Quella della missione vera e propria. L’apprendista cacciatore di taglie Django, ormai diventato killer spietato, con l’aiuto del suo compare Dr. Schultz vuole riscattare la moglie Broomhilda (che nomi fantastici che ci regala ogni volta il Tara!), ridotta a schiava (sessuale) presso Candyland, la dimora di Calvin Candie, un riccone che si diverte a far combattere gli schiavi di colore. Nella parte di Broomhilda troviamo l’affascinante Kerry Washington, attualmente anche protagonista della serie tv Scandal, protagonista dei momenti più romantici e anche visionari del film, mentre in quella di Calvin troviamo un Leonardo DiCaprio in una delle sue migliori interpretazioni da un po’ di tempo a questa parte. Era forse dalla sua immedesimazione totale nell'Howard Hughes di The Aviator che non vedevo Leo così determinato e convinto, lasciato dal Tarantino a briglia sciolta e dunque in grado di poter osare come non gli capitava da parecchio.
Menzione d’onore va poi a un grandissimo Samuel L. Jackson, attore che da’ il suo meglio con Tarantino e che qui non so perché mi ha ricordato un personaggio dei Boondocks, il cartone che andava in onda qualche anno fa su Mtv.

La storia si evolve quindi in una maniera che non vi sto a raccontare, ma che ci regala nuove scene, battute, momenti mitici, qualche sequenza splatter, una delle morti più esilaranti nella storia del Cinema e molto altro. Nella parte finale Tarantino conferma inoltre, oltre a un talento da dialoghista che non ha eguali, di essere diventato un maestro, il Maestro assoluto nella costruzione della tensione. Come già avvenuto in Bastardi senza gloria. La parte a Candyland, che a qualcuno potrebbe sembrare lenta, è lenta. Tarantino infatti vuole rallentare i ritmi, per preparare così al meglio il crescendo finale, super violento e tarantiniano, ma pure più sentimentale del solito, anche se già con la conclusione materna di Kill Bill ci aveva mostrato il suo lato inaspettatamente cuccioloso e tenerone.
Dentro questo Django Unchained c’è poi davvero tanta ma tanta di altra roba buona, così tanta che è da vedere e basta. Vedere per Credere (nel senso religioso del termine) in Dio Quentin.

Vogliamo tirare fuori un paio di note negative, che se no poi mi si accusa di essere troppo di parte, cosa che con Tarantino sono assolutamente? E allora le dico: Quentin compare qui pure come attore e conferma che quello non è il mestiere che gli riesce meglio. No. Inoltre, la canzone realizzata per l’occasione da Ennio Morricone non è certo neanche lontanamente tra le migliori composizione del Maestro italiano e la voce di Elisa…
Uff! Davvero c’è Elisa che canta in un film di Tarantino?
Perché?
Peeeeeeeeeeeeeerché???
Quando l’avevo sentita all’interno della colonna sonora, prima della visione, la loro “Ancora qui” mi aveva fatto una pessima impressione, ma inserita all’interno del contesto del film ci può stare ancora (qui). Poteri miracolosi di Tarantino. Anche se il pezzo rimane probabilmente il peggiore mai usato in una sua soundtrack, è riuscito a farlo suonare in maniera decente.


Fortuna che il resto della colonna sonora è come al solito oltre ogni livello di coollaggine, con le atmosfere western vecchio stampo del mitico tema di Django di Luis Bacalov che si accompagnano in maniera naturale a nuovi pezzi hip-hop e R&B firmati per l’occasione da Anthony Hamilton, John Legend, Rick Ross e altri (peccato per l’assenza di Frank Ocean, che aveva scritto una ballatona apposta per il film ma che alla fine non è stata utilizzata).
I brani black e rap si adattano alla perfezione al cinema di Tarantino, forse il regista più hip-hop in circolazione. Come un dj, Quentin “ruba” e campiona generi e idee dal passato, rielaborandoli in una maniera del tutto personale e facendoli suonare come nuovi. Come un MC, poi, Quentin riempie i suoi film di parole, con una serie di dialoghi infuocati, ricchi di citazioni, riferimenti e naturalmente un linguaggio “parental advisory explicit content”, proprio come i testi rap.

Non va dimenticata comunque anche la bellissima “I Got a Name” di Jim Croce, usata in uno dei momenti più riflessivi del film. Perché sì, il nuovo Tarantino è anche riflessivo. Ci parla di schiavitù nella maniera più vera e meno accademica possibile e ci regala un western che è molto di più e di altro rispetto a un western.
È più maturo, come dicevamo in apertura, ma non è troppo maturo. Perché alla fine Tarantino Unchained cambia ma rimane sempre lo stesso: il buon vecchio figlio di buona donna scatenato che conoscevamo, amavamo e ameremo per sempre.
(voto 9/10)



La musica è sempre più blu - comunicazione di servizio





A tutti quelli che hanno inviato le iscrizioni a orablubollate@gmail.com: siete stati tutti regolarmente iscritti e abbiamo già ricevuto le liste delle canzoni da qualcuno di voi.
Ricordiamo che conviene inviare già le scelte di tutte e tre le categorie più la selezione per l'ospite straniero.
Come potete vedere qui a fianco ho messo il banner che devono usare i blogger che partecipano al contest.

Alla prossima comunicazione
C[h]erotto

lunedì 21 gennaio 2013

La musica è sempre più blu
fase uno: proposta dei brani



Amici followers,  ad una settimana dalla partenza del contest LA MUSICA E' SEMPRE PIU' BLU, è ora tempo di entrare nel vivo della gara!

Da oggi infatti comincia la prima fase del gioco, durante la quale potrete proporre tre brani per ogni categoria in concorso ed un brano per la categoria fuori concorso dell’ospite straniero e, per chi si fosse sintonizzato soltanto ora, iscrivervi al contest proponendo nel contempo i vostri brani! Per registrare le vostre proposte fino a SABATO 26 GENNAIO non dovrete far altro che inviare una mail all’indirizzo orablubollate@gmail.com con l’elenco dei pezzi, specificando artista, titolo e categoria di appartenenza.

Sono sufficienti artista e titolo di ogni brano ma, per garantire la totale par condicio per le votazioni che inizieranno dalla settimana prossima, nel caso in cui proponiate pezzi di artisti o gruppi sconosciuti, semisconosciuti o emergenti vi chiediamo di inserire un link ad un video youtube, un canale musicale o un qualsiasi sito in cui sia possibile ascoltare la canzone proposta con un audio buono.

Riportiamo nuovamente l’elenco delle categorie, ricordandovi che sono ammesse soltanto canzoni cantate in italiano o in dialetto e che non esistono vincoli di nessun genere diversi da quelli specificati per ogni categoria e che è possibile concorrere per tutte le categorie come per una soltanto, a totale discrezione vostra

1. DODICI ANNI DI MUSICA ALTERNATIVA ITALIANA (3 proposte): le migliori canzoni alternative italiane dal 2000 a oggi (qui l'interpretazione della parola alternative è a discrezione dei partecipanti);
2. ITALIAN BEST (3 proposte): le migliori canzoni italiane di sempre, senza alcun vincolo di anno, genere o altro; nello specifico, l'originalità della scelta dovrà essere considerata come una scriminante di giudizio, in modo tale da evitare di avere una lista fatta dei soliti superclassiconi, banali e logori; il criterio dell'originalità sarà determinante per il giudizio della giuria popolare, al momento della votazione finale;
3. ITALIAN TRASH (3 proposte): le peggiori canzoni italiane di sempre, anche qui carta bianca su tutto, anzi, più saranno originali le scelte più ci sarà da divertirsi...

4. L'OSPITE STRANIERO (FUORI CONCORSO – 1 proposta): La scelta dovrà riguardare un gruppo o un'artista internazionale che abbia inciso un disco o un singolo tra l'inizio del 2012 e la data della serata del festival, prevista per il 16 di febbraio 2013. 

Detto questo non resta altro da dire che aspettiamo con ansia le vostre proposte!

martedì 15 gennaio 2013

Cloud Atlas

Cloud Atlas
(Germania, USA, Hong Kong, Singapore 2012)
Regia: Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski
Tratto dal romanzo: Cloud Atlas di David Mitchell
Cast: Tom Hanks, Halle Berry, Ben Whishaw, Jim Sturgess, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Doona Bae, James D’Arcy, Keith David, Hugh Grant, Susan Sarandon
Genere: new-age da discount
Se ti piace guarda anche: Touch, Southland Tales, Sette anime, Babel

La prima recensione cannibale di un film uscito nelle sale italiane nel 2013 è dedicata a uno dei titoli fin da subito più controversi dell’anno. Osannato da alcuni, eletto (giustamente) peggior pellicola dell’anno da Time Magazine, davanti persino ad altra robaccia come John Carter, La leggenda del cacciatore di vampiri e Che cosa aspettarsi quando si aspetta.
Di cosa sto parlando?
Parlo di Cloud Atlas, il nuovo parto mistico dei fratelli Wachowski, Larry e Andy…
Come?
Lana e Andy, volevo dire. A quanto pare, la transizione è stata completata e Larry è ormai a tutti gli effetti una Lana. Come Lana Del Rey.
Insomma, non proprio…



Non è però solo il nuovo film di fratello e sorella Wachowski, gli autori della saga di Matrix. È anche il nuovo film del tedesco Tom Tykwer, uno che con il film videogame del 1998, Lola Corre, mi aveva impressionato positivamente, anche se poi l’avevo perso di vista. Fosse uscito a fine anni ’90, questo film a 6 mani sarebbe insomma stata la cosa più attesa nella storia del cinema. Dopo che Tykwer è un po’ (un po’ tanto) passato di moda, e dopo che i Wachowski hanno realizzato i due pessimi sequel di Matrix e il non certo indimenticabile film videogame Speed Racer, le aspettative nei loro confronti si sono abbassate notevolmente.
Questa jam session di sopravvissuti agli anni ‘90 sulla carta mi incuriosiva comunque parecchio, ancor più perché il trio (non Medusa) si trovava alle prese con un libro bestseller cult come L’atlante delle nuvole di David Mitchell, che non ho letto e che, dopo aver visto il film, non ho la minima intenzione di recuperare.



Bravi tutti, quindi, applausi per le intenzioni. I complimenti a questo progetto però finiscono qui. Mi spiace Lana, Andy e Tom. Non ci posso fare niente. O forse sì. Forse è colpa mia che non ho le capacità mentali di comprendere un’Opera tanto complessa e articolata. Però per me la locandina di Cloud Atlas andrebbe messa nel dizionario al fianco del termine “epic fail”.
Cosa vuol dire “epic fail”?
Guardate Cloud Atlas e lo capirete.

La trama del film? Volete sapere la trama del film? Volete vedermi morto? Volete davvero che finisca cadavere?
Probabilmente sì. Almeno i fan hardcore di questa pellicola che, insieme agli sberleffi della critica, sta contemporaneamente suscitando consensi più di tipo religioso che di tipo cinematografico. Mi sa che a parlare male di Cloud Atlas si rischia più di criticare Scientology o i One Direction, ma correrò il rischio.

La trama del film in ogni caso ve la potete recuperare su Wikipedia o su qualche sito cinematografico che ha avuto la (Santa) pazienza di trascriverla. A me è venuto già un gran mal di testa a vedermi tutto il film, quindi non ho intenzione di rifarmelo venire riportandola qui in questa (Santa) sede. Vi accenno solo che sono 6 storie intrecciate.
Credo non ci sia niente di più rischioso di un film corale con storie intrecciate. Il risultato può infatti essere qualcosa di grandioso e assoluto, come Magnolia di Paul Thomas Dio Anderson, oppure come il pessimo To Rome With Love di Woody Allen.
Ora, non dico che qui siamo ai livelli del secondo, anche se quasi quasi…, però di certo non siamo neanche lontanamente ai livelli del primo.
Lana, Andy e Tom, magari sono io che sono scemo, niente di più probabile, però in un film come Magnolia le varie vicende avevano un senso le une intrecciate alle altre. Non avrò colto il senso io, o forse le storie del vostro film sono davvero intrecciate casualmente tra loro, anche se alla fine fate finta che tutte siano collegatissime. Cose in realtà non è, ma a qualcuno potrebbe sembrare. D’altra parte, se racconti 6 storie e le metti insieme, ci sarà sempre qualcuno che proverà a coglierne temi comuni e punti di contatto anche dove non ci sono.
Voi intanto rivedetevi Magnolia, e poi ne riparliamo su come si fa un film corale davvero degno di nota. Oppure rivedetevi un qualunque film di Inarritu sceneggiato da Guillermo Arriaga, da Amores Perros a Babel (punto di riferimento neanche troppo velato di questo), giusto per capire come si faccia una pellicola in cui le storie sono realmente connesse tra loro.
“Tutto è connesso” recita la frase di lancio. Vero. Tutto è connesso, tranne le storie di questo film. In Cloud Atlas, il risultato di una serie di intrecci del tutto improbabile è piuttosto qualcosa di simile a questo mini-film Movie: The Movie, proposto al Jimmy Kimmel Show.



Un problema del film, non da poco, è quindi quello di presentare un incrocio di storie assurdo e che fin dopo pochi minuti dà l’impressione di non sapere più che pesci pigliare. Fosse solo questo, si potrebbe ancora chiudere un occhio. 6 storie di epoche e generi del tutto diversi tra loro non sono facili da coniugare, quindi il fallimento era già preventivabile. Soprattutto quando hai 3 registi diversi e ognuno ha una sua idea su come girare una scena. Tanto per citare un altro cult di fine anni ’90, magari non ai livelli di Lola Corre e Matrix ma a suo modo comunque cult, ovvero Sex Crimes: “Due sono una coppia, tre è una folla”.
Volete un consiglio? Risparmiatevi 3 ore di pillole new-age da discount con Cloud Atlas, e riguardatevi Sex Crimes, che non è certo un capolavoro cinematografico, neanche lontanamente, ma ha i suoi buoni motivi per essere visto. E capire quali siano è più facile di provare a comprendere il senso della vita riflesso dentro Cloud Atlas.



Prima di questa piacevole parentesi e prima di perdermi proprio come fa il film stesso, stavo dicendo che il problema non è solo nell’intreccio che sembra una versione meno riuscita della già poco esaltante serie tv Touch, quella con Kiefer Sutherland. L’altro grande problema è che le 6 storie, anche prese singolarmente, non coinvolgono. Non vanno da nessuna parte.
Giusto per farci lo sbattone, vediamo nel dettaglio quali sono:

Il Viaggio nel Pacifico di Adam Ewing (1839): un Jim Sturgess mai così spento è il protagonista di una vicenda a sfondo razziale banalotta. Vogliamo mettere con The Help, tanto per dire?

Lettere da Zedelghem (1936): è la vicenda più interessante tra le sei, quella che si concentra su un giovane musicista dandy alle prese con un vecchio compositore. I due insieme realizzano il tema musicale Cloud Atlas, tra l’altro per nulla memorabile ed è un peccato, perché avrebbe potuto fare da collegamento sonoro tra le vicende. La vicenda parte benino, ma pure questa si perde rapidamente in un bicchiere d’acqua. Bravo comunque Ben Whishaw, il più in forma del cast, un attore molto promettente già visto in Bright Star, Skyfall e nell’ottima serie UK The Hour.

Half-Lives - Il primo caso di Luisa Rey (1972), vicenda pseudo giornalistica incentrata su Halle Berry di talmente scarso interesse che si arriva in fondo gridando halle-lujah.

L'orribile impiccio del Signor Cavendish (2012): questa è la vicenda che parte meglio, con la scena di un irriconoscibile Tom Hanks, scrittore che scaglia un critico giù da un grattacielo. La stessa cosa che vorrebbero fare Lana, Andy e Tom con me. E non posso biasimarli. Buona partenza, ma storia che subito dopo si attorciglia su se stessa, affondando nella noia e diventando un impiccio orribile proprio come tutte le altre.

La Preghiera di Sonmi~451 (2144): vicenda cyberpunk pure questa dalle premesse interessanti e che poi viene buttata del tutto via. Si rimpiange Matrix, tantissimo. E si rimpiange quasi il già terribile Architetto di Matrix Revolutions, per dire.

Sloosha's Crossin' e tutto il resto (2321): questo segmento è davvero tragico. Una roba new-age inguardabile e ridicola incentrata soprattutto sui personaggi di Tom Hanks e Halle Berry, due attori sopravvalutatissimi che non mi hanno mai convinto e premiati pure con degli Oscar parecchio immeritati. Beh, quello a Hanks per Philadelphia ci poteva anche stare, ma Forrest Gump insomma e quello alla Berry per Monster’s Ball resta un mistero inspiegabile.
Comunque Cloud Atlas vanterà anche un cast all-star, ma sono tutte star decisamente cadenti. Tom Hanks quanti anni sono che non fa un film decente? Di recente ci ha pure regalato l’orrido L’amore all’improvviso - Larry Crowne in triplice versione regista, attore e sceneggiatore. Halle Berry avrà anche un gran telaio, ma un film decente manco sa cos’è. Susan Sarandon e Hugh Grant pure loro non è che siano proprio all’apice delle rispettive carriere. Jim Broadbent, beh lui all’apice della carriera non lo è mai stato e Jim Sturgess dopo averlo visto in versione coreana rischia di affondare in maniera irreversibile la sua ascesa al successo.



Per cercare di dare un senso al finto incasinato intreccio di storie, i 3 registi hanno avuto l’idea di utilizzare
gli attori in più parti. Giusto per rendere il tutto ancora più incasinato, ma più che altro pasticciato. In più, anche a livello visivo siamo lontani dalle invenzioni del passato e i Wachowski hanno realizzato il loro lavoro più mainstream e scontato, concedendosi giusto qualche momento in slow motion stile bullet time, ma è una cosa che ormai fa pure Guy Ritchie…
Non si può nemmeno dire che la visione di questo scult scivoli piacevole e veloce. Se la prima oretta incuriosisce ancora, perché si cerca di capire dove il film voglia andare a parare, nelle due interminabili ore successive pure questa curiosità scema via via sempre più, tanto che alla fine della visione non ho potuto fare altro che una sola cosa. Oltre a stupirmi di essere ancora sveglio.
La sola cosa che ho potuto fare è gridare:
Per me Cloud Atlas…
è una cloudatla pazzesca!
(voto 3/10)

Cannibal Kid

lunedì 14 gennaio 2013

La musica è sempre più blu
Non Sa(n)remo la solita Sol/Fa...

Amici followers e gentili naviganti del web:  è giunta l' ORA!
Oggi, infatti, prende inizio ufficialmente LA MUSICA E' SEMPRE PIU' BLU!
Di che si tratta, vi starete domandando? La Musica Sempre Più Blu è semplicemente un contest, una sorta di festival, a metà tra il reale e il virtuale, che noi dell'Orablù abbiamo pensato di organizzare, sviluppando una felicissima intuizione dell'amico e socio, Lozirion.

Siete stufi della solita solfa? Certa musica italiana vi intristisce? Le canzonette vi ammorbano? Allora questo gioco fa per voi! Noi vi diamo la possibilità di opporvi allo strapotere di Sanremo, di girare le spalle al palco dell'Ariston e di decidere insieme a noi quali canzoni siano davvero musica per le vostre orecchie.
Partecipare è FACILE, è GRATUITO e lo può fare chiunque, anche se non dispone di un proprio blog. Basta iscriversi inviando una mail al seguente indirizzo: orablubollate@gmail.com, a cui potrete rivolgervi anche per ricevere ogni chiarimento ai vostri eventuali dubbi.

Ora, immagino, vi starete chiedendo in cosa consista il gioco. Anche in questo caso la risposta è semplice. Abbiamo creato tre categorie, che qui sotto brevemente riportiamo:

1. DODICI ANNI DI MUSICA ALTERNATIVA ITALIANA
Le migliori canzoni alternative dal 2000 a oggi (qui l'interpretazione della parola alternative è a discrezione dei partecipanti);

2. ITALIAN BEST
Le migliori canzoni italiane di sempre, senza alcun vincolo di anno, genere o altro; nello specifico, l'originalità della scelta dovrà essere considerata come una scriminante di giudizio, in modo tale da evitare di avere una lista fatta dei soliti superclassiconi, banali e logori; il criterio dell'originalità sarà determinante per il giudizio della giuria popolare, al momento della votazione finale;

3. ITALIAN TRASH
Le peggiori canzoni italiane di sempre, anche qui carta bianca su tutto, anzi, più saranno originali le scelte più ci sarà da divertirsi...


Ogni partecipante regolarmente iscritto, sceglierà, in base ai propri gusti, tre canzoni per ogni categoria in concorso e le invierà all'indirizzo mail: orablubollate@gmail.com, in modo che le scelte vengano registrate in modo definitivo, in attesa delle votazioni.

N.B.:
1. Le canzoni in concorso NON saranno proposte dagli organizzatori, ma le sceglierete voi, tra le vostre preferite;
2. Sono ammesse solo ed esclusivamente canzoni cantate in italiano o in dialetto. NON sono ammesse canzoni cantate in inglese o altre lingue straniere;
3. L'unico limite temporale per il rinvenimento delle canzoni è previsto per la categoria N° 1. Per altre due categorie valgono solo i limiti di cui al punto 2;
4. Non è necessario che le canzoni scelte siano di gruppi o artisti di fama nazionale. Valgono gruppi e artisti indipendenti anche sconosciuti o semisconosciuti;
5. Non è obbligatorio partecipare a tutte le categorie in concorso. Si può partecipare anche solo a una delle tre categorie sopra elencate.


Per quanto riguarda le votazioni, saremo più chiari in seguito. Tuttavia, senza mettere troppa carne al fuoco, è meglio chiarire solo tre concetti assai importanti:
1.  Il voto è aperto a tutti, anche a coloro che non si sono iscritti al gioco;
2. Si vota la canzone, NON il blogger iscritto. Questo eviterà che torme di amici e conoscenti, vengano precettati su facebook o similari per votare sempre la stessa persona;
3. Per ogni categoria, il voto effettuato sul web, determinerà tre canzoni vincenti che parteciperanno alla finale, questa assolutamente reale, che si terrà il 16 febbraio 2013, presso i locali dell'Orablubar di Bollate. Le finaliste quindi saranno complessivamente NOVE ( oltre ai tre ospiti stranieri NON in concorso ).

Come per ogni Festival che si rispetti, ci saranno poi degli ospiti stranieri. Quali?
Li sceglierete ancora voi. Ci sarà infatti un'altra categoria, ma questa volta fuori concorso, che abbiamo chiamato :
L'OSPITE STRANIERO
Anche in questo caso, dovrete inviare la vostra proposta che sarà messa al voto, con le modalità che andremo a spiegare successivamente. La scelta, nello specifico, è però limitata a una sola canzone e dovrà riguardare un gruppo o un'artista internazionale che abbia inciso un disco o un singolo tra l'inizio del 2012 e la data della serata del festival, prevista per il 16 di febbraio 2013. Le tre canzoni straniere premiate andranno a allietare la serata della finale che, ripeto, sarà reale e si svolgerà con pubblico in carne e ossa.

Detto questo, qui sotto potete leggere il calendario del contest:

14 gennaio
Apertura contest e iscrizioni: per iscriversi occorre inviare una mail all'indirizzo orablubollate@gmail.com. A tutti i partecipanti verrà inviato il codice di un piccolo banner che rimanda all'Orablù da inserire sui blog per la tutta la durata del festival. Le iscrizioni hanno inizio a partire da oggi, e si protrarranno fino e non oltre SABATO 19 GENNAIO.
21 gennaio
Inizio ricezione canzoni in gara dai partecipanti: sempre tramite la mail creata ad hoc (orablubollate@gmail.com) ci saranno da inviare le canzoni che parteciperanno alla gara, entro e non oltre SABATO 26 GENNAIO.
28 gennaio

Apertura votazioni musica alternativa e italian trash. Vi comunichermo con apposito post le modalità di votazione.
4 febbraio

Apertura votazioni ospite straniero e italian best. Vi comunichermo con apposito post le modalità di votazione.
11 febbraio
annuncio finalisti e presentazione della serata finale.
16 febbraio
FINALE

La finale si terrà presso i locali dell'Orablùbar, la sera di SABATO 16 FEBBRAIO 2013.
Le canzoni che parteciperanno alla finale saranno sottoposte al vaglio della critica (web) e della giuria popolare, presente in sala insieme a un presentatore. La serata sarà seguita in diretta streaming. Per i blogger che hanno proposto le tre canzoni vincitrici delle rispettive categorie è previsto un premio.



ISCRIVETEVI NUMEROSI E BUON DIVERTIMENTO !

martedì 8 gennaio 2013

Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato




Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato
(USA, Nuova Zelanda 2012)
Titolo originale: The Hobbit: An Unexpected Journey
Regia: Peter Jackson
Cast: Martin Freeman, Ian McKellen, Richard Armitage, Ken Stott, Graham McTavish, William Kircher, James Nesbitt, Stephen Hunter, Aidan Turner, Elijah Wood, Ian Holm, Hugo Weaving, Andy Serkis, Christopher Lee, Cate Blanchett, Lee Pace, Benedict Cumberbatch
Genere: Signorino degli anelli
Se ti piace guarda anche: Il signore degli anelli, Game of Thrones

Peter Jackson ha un hobby. Ho detto un hobby, non un hobbit. Oddio, magari con tutti i soldi che si è fatto con il Signore degli anelli possiede pure un hobbit. Elijah Wood, ad esempio, cosa fa quando non gira la serie tv Wilfred? Dov’è? Secondo me, potrebbe benissimo essere il nano da giardino in casa Jackson. Chi lo sa?
Comunque, l’hobby di Peter Jackson è il fantasy. Fino a che ciò significa giocare a Dungeons & Dragons con la moglie e gli amichetti, cavoli suoi. Quando questa sua passione la riversa su grande schermo, però, sono anche cavoli nostri. Il più delle volte, cavoli piacevoli. La trilogia del Signore degli Anelli è stata una signora trilogia. Emozionante, fantasiosa, avventurosa. Un’esperienza piacevole anche per chi, come il sottoscritto, ha sempre gettato uno sguardo di traverso al mondo fantasy. Merito dei valori universali di amicizia, devozione e rispetto snocciolati dalla storia. Merito anche di una serie di personaggi carismatici, come Aragorn, o folli, grandiosamente folli come il Gollum, oppure simpatici e pasticcioni come i piccoli hobbit.

Al termine dell’immane quanto riuscita impresa di trasportare su grande schermo il tomo di Tolkien, Peter Jackson si era poi gettato su un’altra trasposizione letteraria, tirando fuori lo splendido Amabili resti, mio film dell’anno 2010. Una parentesi intimista, per quanto pure quella non priva di una componente fantasy, prima di ritornare nella terra di mezzo.



In verità, il progetto de Lo Hobbit ha avuto una vita parecchio travagliata. Già va considerato che è un libro che Tolkien ha scritto prima del Signore degli Anelli, che nasce quindi come sequel. Mentre questo adattamento cinematografico arriva dopo, in versione prequel. Ma questi sono dettagli che possono essere sistemati senza troppi problemi, a Hollywood.
Il progetto all’inizio era stato affidato alle mani messicane di Guillermo Del Toro. Regista che pure a me non è che entusiasmi completamente. Mi è piaciuto Il labirinto del fauno, mentre i due Hellboy mi sono sembrati decenti ma niente di memorabile. Non sono un fan assoluto del Del Toro non Benicio, però ero curioso di assistere a ciò che avrebbe potuto tirare fuori dalla materia tolkieniana. Così, tanto per cambiare.
Per casini vari che adesso non conosco e che qualche recensore più professionale e qualificato e tolkieniano vi saprà spiegare meglio di me, il progetto Lo Hobbit è finito di nuovo tra le mani da hobbit di Peter Jackson.
Cosa che poi non ha sorpreso nessuno, visto che sapevamo sarebbe andata a finire così.
La cosa non mi dispiaceva nemmeno troppo, visti i buoni risultati ottenuti dalla trilogia anellare. Il problema è che quanto ne è uscito è un prodotto senza una sua identità specifica. Lo Hobbit sembra un altro episodio della saga in tutto e per tutto, senza presentare grosse novità, se non la velocità a 48 fotogrammi al secondo con cui alcune copie della pellicola sono state distribuite. Ma questi sono tecnicismi alla James Cameron e non devono ingannare. Per il resto, è un film del tutto adagiato nel passato. Se il livello fosse quello della Compagnia dell’anello, delle Due Torri o del Ritorno del re, mi starebbe anche bene. Il risultato invece mi è sembrato più come se stessi assistendo alle scene tagliate da questi episodi. A scene giustamente tagliate.
Aggiungi didascalia



In questo Lo Hobbit, di momenti memorabili ce ne sono davvero pochi. Io ne ho contato uno: la scena del canto triste a casa di Bilbo prima della partenza per la grande (ma dove?) avventura. Per il resto, ci sono 3 ore 3 di scenette estenuanti, bambinesche, noiose, che mettono a dura prova la pazienza, e pure la sopravvivenza, dello spettatore meno avvezzo al fantasy.
Il grande pregio della trilogia del Signore degli anelli era quello di saper ammaliare e trasportare nella sua terra di mezzo anche i meno patiti del genere come me. Il grande difetto di questo è quello di non riuscire a farlo. Tra i motivi della scarsa riuscita de Lo Hobbit, sicuramente possiamo citare la scelta di trasformare il romanzo unico di Tolkien prima in due, poi addirittura in tre pellicole distinte. Giusto per capitalizzare al massimo gli incassi. E chissenefrega del risultato artistico.
Se Il signore degli anelli era stato pubblicato su tre volumi e quindi una trilogia cinematografica calzava a pennello, questo romanzo unico doveva diventare un film unico. Fine della storia.

In attesa di giudicare anche i prossimi due capitoli (ma penso dovrò munirmi di molti caffè + red bull per reggerli da sveglio), il primo episodio Un viaggio inaspettato di inaspettato non ha proprio un bel nulla e appare come un capitolo introduttivo ricca di momenti riempitivo.
La primissima parte ci riscaraventa in mezzo alla Terra di Mezzo e ci sta ancora. L’effetto nostalgia di ritrovare alcune vecchie conoscenze fa piacere. Compare persino Frodo/Elijah Wood! L’irruzione dei vari personaggi in casa Baggins è anche simpatica. Strappa qualche sorriso e uno pensa: non è proprio come la prima trilogia, però magari da qui in poi la pellicola migliora…
Invece no. Quella è la parte migliore del film. Poi si peggiora. Quando l’avventura vera e propria comincia, comincia pure la noia. Manca giusto Barbalbero, e poi è una lunga, interminabile sequela di personaggi inverosimili e gag assurde. Persino il ritorno di altri volti familiari come l’inquietante Galadriel (Cate Blanchett), l’ancor più inquietante Saruman (Christopher Lee), o l’ancor ancor più inquietante Gollum (Andy Serkis) non sortisce l’effetto sperato.
Parentesi Gollum: per quanto la sua comparsata risulti ancora tra i momenti più interessanti della pellicola, appare qui come una parodia di se stesso. Sarà che ormai la sua frasi simbolo: “Il mio tesssoro” ormai è stata sputtanata a forza di sentirla e riderci sopra, però appare ridicolo piuttosto che no. Laddove nel Signore degli anelli appariva invece il personaggio più ambiguo e sfaccettato dell’intera Opera.





Vogliamo salvare qualcosa da tre infinite ore di fantasy puro?
E con fantasy intendo che ho passato tutto il tempo a fantasticare di vedere un altro film?
Per il momento non si è nemmeno ancora vista la tanto vociferata Evangeline Lilly, che probabilmente comparirà per tipo 5 minuti in uno dei prossimi due episodi, e allora salviamo il protagonista. Martin Freeman sembra nato per fare un hobbit, anzi per fare Lo Hobbit. Gli altri attori e gli altri personaggi invece non funzionano. Alcuni per altro sembrano truccati come Francesco Mandelli dei Soliti idioti, tanto che mi aspettavo un “Dai, cazzo, GianBilbo!” da un momento all’altro. L’Aragorn di Viggo Mortensen, il Sam di Sean Astin, i Pipino e Merry di Billy Boyd e Dominic Monaghan… quelli sì che erano personaggi.
Questi nuovi chi sono? Dove vogliono andare?
Il Thorin interpretato da Richard Armitrage, in particolare, vorrebbe davvero essere il nuovo Aragorn?
Ma per favore!






Lo Hobbit è una versione in tono minore del Signore degli anelli. Un signorino degli anelli, nonché un film sbattito zero. Persino il compositore Howard Shore non si è sforzato manco un minimo e ha riciclato i temi musicali già noti della precedente trilogia. Quanto a Peter Jackson, ha girato in maniera sicura e impeccabile, ma col pilota automatico inserito. Se dal Signore degli anelli emergevano chiaramente l’entusiasmo e il divertimento del regista neozelandese, qui sembra quasi che si sia annoiato lui stesso. Figuriamoci noi poveri spettatori.
Un consiglio: per passare meglio le 3 estenuanti ore di visione, è meglio se vi trovate un hobbit… volevo dire un hobby.
(voto 5,5/10)

Cannibal Kid

lunedì 7 gennaio 2013

Artisti di tutto il mondo unitevi!


Se volete esibirvi, se vi piace recitare, cantare, suonare, se vi dilettate in cabaret, giocoleria o poesia, l’Orablù sarà lieta di ospitarvi. Noi vi daremo lo spazio, il pubblico, molta attenzione e parecchio affetto, voi in cambio ci offrirete la vostra arte.

Amiamo la cultura e la vogliamo diffondere: quindi, se potessimo, vi ricopriremmo d’oro.
Siamo però un associazione non profit e viviamo solo ed esclusivamente grazie al contributo e al volontariato dei soci. Rilassatevi: non vi daremo solo il classico tozzo di pane. Oltre a offrirvi pizza e birra, abbiamo anche escogitato un sistema che ci consentirà quantomeno di rifondervi le spese.

Per i musicisti: siamo aperti a ogni esperienza musicale, e possiamo spaziare dal rock alla classica, dal jazz al cantautorato, dal blues al funk. Sappiate però che il nostro locale NON è insonorizzato e che d’inverno saranno accettati solo live act acustici. D’estate, invece, l’ampio spazio esterno consentirà roboanti perfomances elettriche.

Contattateci subito per saperne di più, telefonando al 3478313611 (Walter) o al 3346369597 (Giancarlo) oppure scrivendo a info@orablu.com

venerdì 4 gennaio 2013

Fratelli bastardi


Quella mattina mi svegliai molto presto, bevvi un caffè, mi infilai i pantaloncini, le scarpe da footing, una t-shirt ed uscii di casa che ancora era buio. L’aria era fresca e secca. Lentamente presi a correre in salita. Nei primi due chilometri mantenni un’andatura costante per permettere ai muscoli di scaldarsi, poi aumentai gradualmente. Mi piaceva correre in salita, provavo quel gusto sottile della sfida con me stesso che in qualche modo placava la mia aggressività. Mentre arrancavo, sentii l’odore della terra e dell’erba arata da poco. Continuai ad arrampicarmi con veemenza. Poi la strada scollinò e ci diedi dentro per qualche chilometro, fin quando da dietro una curva sbucarono delle mucche che mi guardavano con superiorità. Mi portai a ridosso del guardrail e continuai la mia corsa solitaria. Mentre correvo, riuscivo a mettere ordine alle cose e a scarabocchiare i ricordi. Quando arrivai in cima grondavo di sudore, avevo i polmoni che mi bruciavano, mentre il sole si alzava da dietro la montagna e filtrava sulle chiome degli alberi. In quel momento mi sentii appagato e vivo come non mai.
Vivo, talmente vivo, come solo certo rock’n’roll sapeva esserlo, prima che lo mandassero in pensione tra galline e maiali, fienili e sterco di vacca. Il rock sta diventando noioso. Quel rock che è nato e germogliato per la strada, nelle cantine umide e gocciolanti di pioggia, grezzo e volgare, diretto come un pugno allo stomaco, quel rock che era rivolta dei giovani contro i vecchi é finito in fattorie con parquet, svuotato della sua vera natura di ribelle dissacrante. Un combattente che sta invecchiando malamente da non essere più così importante nella vita della gente, perché semplicemente non lotta più, non rompe più i coglioni al potere.
Il rock è stato affidato all’industria, ai suoi manager, a certi produttori e non vive più senza limiti e confini. Ma quel rock sta rintanato da qualche parte e chiede, ne sono certo, di essere nuovamente suonato senza compromessi, integro e puro. Di farsi nuovamente portatore della rabbia di una generazione. Il rock come è stato per Jim Carroll. Il “Catholic Boy” drogato e omosessuale, dimenticato dai più, che ha dedicato la sua vita alla causa suonando duro e usando parole taglienti e poesia da strada. Portavoce di una generazione di sbandati con un ago in vena. Benedetto da Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg per la sua prosa. Un rocker che faceva ballare e inginocchiare gli angeli ha ricevuto indietro meno di nulla se non quella sensazione di appagamento per avere fatto ciò che ha sempre voluto, con una dignità che non ha uguali, senza trucchi, senza inganni, schietto e diretto, in una società umiliata dal qualunquismo e incapace di ribellarsi. Dove, usando le sue parole, presente e futuro diventano cenere, e forse fulgida fiamma.
I miei fratelli bastardi. Sono stati loro a prendersi cura di me, quando tutto mi precipitava addosso, quando rincorrevo la vita e nascondevo l’inferno sotto la camicia. Ma andavo dritto, come un bisonte impazzito, per la mia strada, per ritrovarmi alla fine solo, all’alba di un nuovo giorno, a vagare appeso alle canzoni dei Senders di “Return a’l’Envoyeur”. Quattro gatti randagi delle banlieue francesi, terra di rock per antonomasia, di una generazione perduta nei sogni di rock’n roll. Veri e autentici i The Senders! Delinquenti prestati al rock per salvarsi la pelle; una meteora di quelle che non ricorda nessuno ma, chi in quei giorni li ha incrociati sa che suonavano canzoni ispirate da Willy “il gatto blu”, canzoni che erano come battiti del cuore.
Willy mi manca maledettamente. Saperlo in giro mi rassicurava. Non tutto era perduto. Un musicista a 360 gradi come non ne esistono più. Uomo dal cuore immenso che ha vissuto il rock come pochi altri, una stella per chi è cresciuto nelle ultime file e ha dovuto sgomitare per farsi largo. Un artista che non si è mai piegato di fronte a nessuno, un esempio per tutti.
Ebbi la fortuna di incrociarlo l’hanno prima che morisse in un festival blues a Mascalucia in provincia di Catania, un paesino sotto le pendici del grande vulcano. C’era un atmosfera magica che colpi molto anche lo stesso Willy ,e lo disse biascicando le parole in una pallottola di fumo. Quando sbucò da dietro il palco, accompagnato dalle note di un blues secco come un chiodo, con i suoi lunghi capelli, mi parve uno dei cavaliere della tavola rotonda. Lo guardavo ipnotizzato, avevo la bocca asciutta per l’emozione. Lui invece era rilassato e a suo agio. Non ricordo null’altro se non che quando imbracciò la Fender e si piazzò davanti al microfono e parti Savoir Affair mi fiondai sotto il palco e non capi più nulla. Mi sentii come se fossimo al CBGB’s e mi ricordai dei miei giorni disperati, di quando ero debole ed indifeso mentre lui mi cullava tra le sue braccia, insieme ad altri fratelli nati alla periferia dell’impero.
I “nati perdenti”, con la strada sempre in salita. E quando arrivava la notte ci si scaldava con quell’urlo disperato che era Born Too Loose di Johnny Thunders, un altro che macinava rock’n roll a mille. Un “Keith Richard dei poveri” che non si è fatto mancare nulla nella sua esistenza fino ad auto distruggersi; troppo innamorato del rock per capire che la sua non era finzione. E dopo tutta quell’energia si restava da soli, perché alla fine si resta sempre soli, e ci si accarezzava il cuore con “Devon Song” degli Only Ones di Peter Perrett, un cantante che sembrava un incrocio tra Dylan e Lou Reed. Saliti e subito scesi dal podio grazie ad una canzone “Another Place, Another Planet “che ancora oggi resta bella e malata, figlia di quei fiori selvaggi, di quel bianco calore che erano i sogni di velluto. Musica schietta, sincera, cosi sincera da farti male, molto male se avevi il cuore a pezzi e gli occhi gonfi.
E’ stata la musica che mi ha protetto dalla pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima della mia anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una generazione cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet , Mott The Hopple, Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di Baudelaire e di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere. La sacerdotessa del rito è stata lei, Patti Smith, la prima cantante donna che non doveva niente a nessuno, che risplendeva come una divinità anche se era vestita tutta di nero. Quando arrivò Horses le regole furono infrante, l’anarchia in musica prese per la prima volta forma e il rock ‘n roll fu libero da qualunque legame, come non era riuscito di fare neanche a Jim Morrison .
Poi a Londra accadde il miracolo. Inaspettatamente, tutto in una notte. Potevi ascoltare una miriade di gruppi punk nati dopo aver visto i Sex Pistols. Gente come i Vibrators , Stranglers, Ian Dury, i Damned, Slaughther &the Dogs, ragazzi emarginati, senza prospettive, senza futuro: unica certezza il rock’n’roll. Quei giovani proletari erano come migliaia di altri ragazzi sparsi per il mondo. Con le loro canzoni denunciavano il vuoto esistenziale e la sofferenza di un’intera generazione. Ed arrivò Joe Strummer e i Clash, e fu come vedere la luce. Finalmente uno che lottava contro la miseria e l’alienazione, uno che aveva la morale comunista e lo spirito socialista. Il mio “Che Guevara”. Finalmente qualcuno che ti faceva sentire orgoglioso di essere un proletario, che ti spingeva ad uscire dal guscio, che ti parlava sostenendo che era possibile farcela, anche se non avevi opportunità. Quelle te le dovevi prendere, ti toccavano in un modo o nell’altro. Eri un Sandinista, un guerriero di strada, un indomabile. Anche se avevi perso la tua battaglia andava bene lo stesso, avevi lottato, avevi dato tutto te stesso. Perché, da quel momento in poi, non saresti stato più un ribelle senza causa. Troppo comodo, aveva fatto questa storia del ribelle senza causa al Potere. Ora avevi un identità ben precisa e una Band che ti sosteneva. E’ grazie ai Clash che molti di noi non sono finiti a rubare autoradio per comprarsi la dose. E’ grazie a loro, ed anche agli Stiff Little Fingers, che abbiamo imparato che la musica non é solo divertimento, ma può essere anche qualcos’altro. Grazie anche ai fratelli Severini (l’unica vera Gang italiana ) che nel tempo hanno mantenuto quella fiamma sempre accesa; gli unici e soli che possono andare ad Hyde Park e cantare “London Calling” con i pugni alzati e il fazzoletto rosso al collo .
Adesso lo sento questo vento che sta cambiando. La gente che torna ad occupare le strade, a chiedere giustizia e libertà, pane e lavoro . E il sogno di un nuovo ordine mondiale continua. I ragazzi hanno riattaccato la spina. Gli amplificatori ronzano e le cantine sono piene di gente che scrive, che parla, che lotta. Il rock, come per magia, si è rimesso in sesto ed è arzillo è vivo nuovamente. Pronto per una nuova rivoluzione. Contiamoci, siamo in tanti. Fratelli Bastardi.

Bartolo Federico

giovedì 3 gennaio 2013

C’erano una volta un norvegese, un aborigeno e un pipistrello.

Ero appena uscita da una due giorni di merda: ero raffreddata, avevo preso una multa sul treno, e non avevo fatto i compiti per casa. Ma c’erano stati anche momenti positivi: i controllori erano stati gentili e mi avevano guardata come se fossi bella, ero rimasta a casa da scuola evitando la figuraccia di non aver fatto i compiti, e avevo un lavoro, quindi uno stipendio.
Cosa si fa quando non si va a scuola, ma non si vuole farlo sapere a casa? Semplice, si va alla stazione. Cosa si fa alla stazione? Facile, si paga la multa, ci si fa un giro, poi si prende un treno per andare al lavoro. E cosa si fa durante questo giro alla stazione? Prevedibile: si entra in libreria. E se all’ingresso della libreria c’è una piramide di thriller, di cui un lato intero dedicato ai romanzi di Jo Nesbø, cosa si fa? Esatto, si cerca fra tutti i titoli il primo della serie dedicata a Harry Hole, quello che non è mai stato tradotto in italiano, e lo si compra, costi quel che costi, tanto ormai la multa è pagata.

E poi si inizia a lottare. No, non con i demoni di un poliziotto che ha qualche segreto sulla coscienza - che però poi svela molto facilmente alla sua fiamma, solo perché lei fa la curiosa e lui si sente innamorato. Innamorato? Ma avete trombato solo due volte, come puoi essere innamorato? Arriva almeno a tre, così, per scrupolo! Non contro la palpebra che cala sul libro a casa, o contro il gomito altrui che fionda fra le costole sulla metro, o contro il tempo durante la pausa: queste lotte sono reali, sì, ma non personificate come la mia lotta come lettrice di thriller. Ed effettivamente sono stanca di spezzare lance a favore dei thriller contro persone che, un thriller, non l’hanno mai letto, a questo punto direi che il problema è loro, che sono loro a voler sputare sentenze pregiudiziali, che sono loro a voler vivere nell’ignoranza dei generi, che sono loro a voler fare la scena perbenista di chi legge “di meglio” – ma mostrate chiaramente cosa leggete, abbiatene il coraggio, una buona volta!

- È interessante, almeno? –
Vedete il pregiudizio nella domanda?
- Non lo so, l’ho appena iniziato. –
Vedete che io non voglio tessere lodi a priori?
- E poi è in tedesco, a volte non capisco bene.. –
- Beh, se è un thriller forse è normale che non si capisca. –
E daje..
- No, io non capisco certe parole, le dovrei cercare nel vocabolario, ma un libro è più bello se letto tutto d’un fiato.. –
- E poi se è noioso come dici.. –
Ho detto che è noioso?
- Non lo so se è noioso, l’ho appena iniziato. –
- Mm.. –
- Anzi mi piace perché sto scoprendo delle cose sull’Australia che non sapevo, leggende aborigene ad esempio. –
- Ah, ecco, questo libro non è solo action. –
Ma perché le incontro tutte io?
- Nessun thriller è solo “action” se è un buon thriller. C’è sempre qualche altro racconto nel mezzo, che serve per la suspense e.. –
Ma perché non posso leggere un libro in santa pace, per il gusto di leggere? Perché devo difendere i miei autori preferiti, le mie letture?

Già dal titolo avevo capito chi è l’assassino. In tedesco il titolo è Der Fledermausmann, che significa l’Uomo Pipistrello, ed è chiaro che quest’uomo pipistrello è l’assassino, non il poliziotto né l’amante del poliziotto. Nessun thriller ha nel titolo il nome del poliziotto, i gialli invece hanno spesso nel titolo il nome di chi indaga. Nessun giallo ha un poliziotto come protagonista, perché chi indaga è spesso un comune mortale. Nei gialli un comune mortale può indagare perché non muore finché non ha smascherato l’assassino, mentre nei thriller la situazione potrebbe ribaltarsi a tal punto che il poliziotto viene ucciso durante le indagini. Negli horror il poliziotto ucciso resuscita per vendicarsi, mentre nei thriller si scopre che aveva solo inscenato la sua morte, per prendere da dietro il serial killer. Nei gialli non c’è mai un serial killer, gli omicidi sono una tantum, ne ammazzano al massimo un altro, ma solo se era il primo sospettato, in modo da ribaltare la situazione, e comunque per sbaglio, perché la vittima doveva essere solo una.

Al poliziotto di Nesbø, il famoso Harry Hole, spetta scoprire chi si nasconde dietro il “Fledermausmann” del titolo, ma non pensiate che sia il solito nomignolo che si danno i serial killer pieni di sé, o che i poliziotti burloni danno agli assassini per intendersi, perché anche se ad un certo punto del romanzo compare un tipo vestito da pipistrello (si è nel mondo delle arti circensi, ma non solo lì), l’idea di identificare l’assassino con un pipistrello viene da una leggenda aborigena.

- I pipistrelli sono il simbolo della morte per gli aborigeni, non lo sapevi? –
Harry non l’aveva mai sentito prima.
- Immaginati un posto in cui gli uomini hanno vissuto isolati per più di quarantamila anni. Per dirlo in altre parole, non sapevano nulla degli ebrei, per non parlare del cristianesimo e dell’islam, perché un immenso oceano li separava dal continente più vicino. Ciononostante avevano le loro storie sulla creazione. Il primo uomo fu Ber-rok-boorn, venne creato da Baime, il non-creato, che era l’inizio di ogni amore e che difendeva tutte le cose create. In altre parole, un tipo tranquillo, chiamato dagli amici solo come il Grande Spirito paterno. Dopo che Baime ebbe dato a Ber-rok-boorn e a sua moglie quello che secondo il giudizio di chiunque era un ottimo posto per vivere, mise un segno su uno Yarran, un albero di eucalipto, dove si era stabilito uno sciame di api. ‘Voi potete cercarvi da mangiare in tutta la terra, ma quest’albero appartiene a me.’ Ammonì i due. ‘E se cercate di procurarvi da mangiare anche da quest’albero, a voi e ai vostri discendenti capiterà qualcosa di molto brutto.’ – o qualcosa del genere. In ogni caso, un giorno che Ber-rok-boorn era via per raccogliere legna, sua moglie passò davanti all’albero. All’inizio, appena si rese conto di essere sotto l’albero sacro, provò una grande paura, però sotto l’albero c’era così tanta legna, che non seguì il suo primo istinto di andar via il più velocemente possibile. Inoltre Baime non aveva parlato di legna. Mentre raccoglieva la legna sentì un debole ronzio su di sé, sollevò lo sguardo e vide lo sciame d’api e il miele che colava vicino alle radici dell’albero. Aveva assaggiato un po’ di miele un’unica volta prima d’allora, ma qui c’era da mangiare per più pasti. Il sole luccicava sulle dolci e lucide gocce e alla fine la moglie di Ber-rok-boorn non riuscì più a trattenersi e si arrampicò sull’albero.
In quel momento arrivò un alito freddo dall’alto e una grossa figura scura circondò con enormi ali nere il suo corpo. Era il pipistrello Narahdarn che Baime aveva incaricato della custodia dell’albero. La donna cadde a terra e corse verso la sua caverna, dove si nascose, ma era troppo tardi, aveva richiamato sulla terra la Morte, simbolizzata dal pipistrello Narahdarn, e tutti i discendenti di Ber-rok-boorn subiscono da allora questa condanna. L’albero pianse lacrime amare per questa tragedia, le lacrime colarono lungo l’albero ed è per questo che oggi sulla corteccia dell’albero di eucalipto si può trovare la gomma. Adamo ed Eva in australiano, non è vero? –
Harry annuì, e dovette ammettere che c’erano un bel po’ di somiglianze: - Forse è semplicemente così. Non importa in quale posto della terra vivono, gli uomini hanno in qualche modo le stesse visioni e fantasie, ed è così nella loro natura, come dire che si trovano scritte così nel loro hard disc. E questo prima o poi, e nonostante tutte le differenze, porta a trovare le stesse risposte. -*

Siamo in Australia, ai giorni nostri, e Sidney è la città in cui tutto può succedere, in cui si può far fortuna, o semplicemente vivere la propria gioventù, o la propria sessualità, o avere la propria indipendenza forse anche economica. Tutta l’Australia può dare questa sensazione di libertà: nel romanzo sono citate compagnie viaggianti di arti circensi, spettacoli di pugilato itineranti, spacciatori di droghe varie con sedi storiche in paesini diventati attrattivi negli anni Settanta proprio grazie alle sostanze più stupefacenti che ci fossero, ma anche semplici viaggi on the road con l’autostop di giovanotti europei in cerca d’avventura. Sidney, e l’Australia, sono il centro del mondo, perché rappresentano il mondo, grazie ad una popolazione variegata e multietnica. Come tutti sappiamo venne colonizzata e popolata nel Sette o Ottocento dal Regno Unito (allora Impero) con galeotti e deliquentelli vari, e poi via via “civilizzata”. Il fatto che venne popolata non vuol dire che al tempo fosse disabitata.
Ecco, se c’è qualcuno che non si sente tanto a suo agio in Australia, questo è il popolo aborigeno, il popolo dei nativi, al quale è stata rubata la casa senza tante grazie, salvo poi cercare di porre rimedio al sopruso con leggi speciali, ma in generale gli aborigeni vengono trattati come discendenti di oggetti di cui si disponeva. Il principio sul quale si basarono i dominatori era: voi non avete coltivato la vostra terra, vivete d’altro, come bestie, coltivare la terra è un’abitudine civile, quindi la terra non vi appartiene e voi siete da civilizzare perché non sapete comportarvi - con tutta la perdita delle tradizioni e dell’identità che questo ha comportato per gli aborigeni.

- E tu a quale popolo appartieni? –
- Cosa intendi? Io sono di Queensland. –
- Scusa, è stata una domanda stupida. –
- Tu reagisci come la maggior parte dei bianchi. –
- Con pregiudizio? Ho detto qualc.. –
- Non si tratta di cosa dici, ma di ciò che ti aspetti da me inconsapevolmente. Tu credi di aver detto qualcosa di stupido, e senza rifletterci ti aspetti che io reagisca come un bambino ferito. Non ti viene nemmeno in mente che io sia abbastanza intelligente da essere tollerante con te, perché tu sei straniero. Tu non ti senti offeso personalmente, se i turisti giapponesi in Norvegia non sanno tutto del tuo Paese, no? Se non sanno che il vostro re si chiamava Harald per esempio. E non riguarda solo te, Harry, anche gli stessi australiani stanno molto attenti a non dire qualcosa di sbagliato. Ed è questa la cosa assurda. Prima hanno portato via l’orgoglio al nostro popolo, e adesso che non abbiamo più orgoglio, hanno una paura matta di ferirlo. -*

È sempre utile quando uno dei personaggi più importanti di un romanzo è uno spaccapalle che ad ogni pie’ sospinto ha una storia attinente da raccontare, anche se l’attinenza si scopre dopo un bel po’ che ha iniziato a raccontare, perché si imparano un sacco di cose. E chi le impara non è solo il poliziotto venuto dalla Norvegia per contribuire alle indagini sul femminicidio di una giovane norvegese, ma anche noi lettori. Un popolo lontano, sconosciuto, ci si mostra solo ora un po’ più simile a noi, un po’ più comprensibile, in lui si notano somiglianze che prima sembravano inesistenti e impossibili.

- Un tempo, la futura moglie di un aborigeno doveva superare tre prove prima del matrimonio. – spiegò Joseph. – Per prima cosa doveva sopportare la fame. Doveva vagabondare o cacciare, senza mangiare nulla. Poi veniva condotta ad un fuoco da campo in cui c’erano un gustoso canguro arrosto e altre prelibatezze. La prova consisteva nel trattenersi, nel non essere avida, bensì mangiare la quantità giusta in modo che restasse qualcosa anche per gli altri. –
- Da noi c’era una volta qualcosa di simile, – disse Harry – lo chiamavano galateo. Ma credo che non si faccia più. –
- Come seconda prova doveva cercare di sopportare il dolore. – Joseph gesticolava selvaggiamente mentre raccontava: - Alla giovane donna venivano spinti dei ferri attraverso il naso e le guance, e si incidevano segni sul suo corpo. –
- E allora? Oggi le ragazze pagano, per questo! –
- Chiudi la bocca, Harry. In ultimo, quando il fuoco si spegneva, doveva coricarsi sulle braci, separata da loro solo da un paio di rami. Ma l’ultima prova era la più difficile. –
- La paura? –
- You bet. Dopo il tramonto, i membri della tribù si riunivano attorno al fuoco, e i più anziani le raccontavano a turno le storie più raccapriccianti su fantasmi e su muldarpe, il demone dei demoni. Alcune storie erano abbastanza forti. Alla fine le si chiedeva di dormire in disparte, in un luogo abbandonato o vicino alle tombe degli antenati. Nel buio della notte, gli anziani le si avvicinavano di soppiatto con le facce dipinte di bianco o con maschere in legno.. –
- Non è un po’ come portare nottole ad Atene?** -
- ..e facevano rumori inquietanti. Mi spiace dovertelo dire, Harry, ma davvero non sei un buon pubblico. – Joseph sembrava offeso.
Harry si sfregò la mano sul viso.
- Lo so. – disse dopo un po’ – Mi dispiace, Joseph. Io ero venuto qui solo per pensare un po’ a voce alta, per ricontrollare che lui non si sia lasciato dietro magari un po’ di tracce che potrebbero darmi un indizio su dove potrebbe averla portata […]. -*

Harry Hole vuole solo indagare, ma si imbatte sempre in una storia aborigena che non solo lo incuriosisce, ma che potrebbe tornargli utile nell’indagine, o almeno io pensavo questo, anche se quelli che contengono solo elementi funzionali sono i gialli, mentre i thriller no: i thriller raccontano sempre qualcosa solo per il gusto di raccontarla. Delineano un personaggio che ritorna (poliziotto o assassino) e che noi seguiamo nel suo percorso (formativo o degenerativo) e che riconosciamo, al quale ci affezioniamo o che impariamo ad odiare. Un thriller racconta spaccati di vita, usanze, descrive paesaggi, usa la musica come leitmotiv, o come personaggio (qui c’è una canzone a due voci, che io ho identificato con Where The Wild Roses Grow, ma chiunque potrebbe smentirmi, pure lo stesso romanzo, perché quando Harry Hole la sente di nuovo in un locale, io mi sono distratta un pochino e adesso non trovo più la pagina) che ritorna e in qualche modo “perseguita” un altro personaggio (poliziotto o assassino). Un thriller racconta per il gusto di raccontare, ma contemporaneamente fornisce elementi che torneranno, forse, in libri successivi, per questo ci tenevo, dopo aver letto per puro caso Nemesi, a recuperare il primo romanzo della serie di Harry Hole, per vedere come è nato Harry Hole, come era all’inizio, come aveva iniziato il suo percorso. E cos’ho scoperto di Harry Hole? Che come tutti i poliziotti ha alcuni fantasmi del passato che lo seguono come fossero la sua ombra: alcuni se li porta appresso da prima, altri se li procura nel corso della sua primissima indagine, in Australia, ai giorni nostri, mentre contribuisce alle indagini sul femminicidio di una giovane norvegese, perché li racconta alla sua fiamma solo perché si sentiva innamorato eccetera, ma cavoli, aspetta almeno la terza volta prima di dirle tutto!

Elle

* Tutti i brani che vi riporto li ho tradotti io in italiano dalla traduzione tedesca del norvegese originale
** Dopo aver, finalmente, trovato la traduzione italiana di questa espressione, ho dovuto cercare anche la parola “nottola” che significa “civetta” e l’espressione italiana, presa da Ariosto è: “portar a Samo vasi, nottole ad Atene e coccodrilli in Egitto” (mentre secondo il dizionario tedesco, la sola frase “portar nottole ad Atene” risale ad Aristofane) e significa “fare una cosa inutile e superflua”.