martedì 30 aprile 2013

Il bandito delle ore undici

Il bandito delle ore undici
(Francia, Italia 1965)
Titolo originale: Pierrot le fou
Regia: Jean-Luc Godard
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Cast: Jean-Paul Belmondo, Anna Karina, Graziella Galvani
Genere: nouvelle vague
Se ti piace guarda anche: Moonrise Kingdom, La rabbia giovane, Fino all’ultimo respiro


Capitolo 5
Cinema free form. Post free form.
Situazioni a caso. Frasi sconnesse che messe insieme forse danno un senso forse no. Il bello è questo. E per fare l’acculturato ci metto dentro una citazione random dallo stesso Godard:
“È ora di smetterla di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico.”



Capitolo 4
Perché Godard gira dei film così?
“La mia lotta particolare è la lotta contro il cinema americano, contro l'imperialismo economico ed estetico del cinema americano che manda in rovina il cinema mondiale.”
Ecco perché.



Capitolo 2
La trama de Il bandito delle ore undici è abbastanza semplice, a differenza della forma schizoide e poco lineare con cui Godard sceglie di raccontarla per incasinarci le menti e obbligarci a pensare.
Ferdinand, un francese borghese, vuole uscire dalla sua routine famigliare. Per farlo non si compra un’auto sportiva, non va a mignotte, non spende tutto lo stipendio al video poker e non si iscrive in palestra come un tipico uomo in crisi di mezza età italiano, bensì decide di fuggire con l’amante Marianne, che poi è una sua ex, e diventare un bandito assassino. Ferdinand, che però Marianne chiama Pierrot, scappa insieme alla fanciulla e i due conducono una vita nomade, fuggiasca e criminale. Fino a che…



Capitolo 6
Creare, inventare qualcosa di nuovo o copiare, pardon prendere ispirazione dagli altri?
Godard sembra pensarla come Tarantino:
“Io non invento niente, leggo molto. La mia originalità e il mio fardello stanno nel credere che il cinema sia fatto più per pensare che per raccontare storie.”
No Zucchero, per te il discorso è diverso: tu rubi le canzoni agli altri, e basta.



Capitolo 3
Cosa vuole il pubblico?
“Tutto ciò che desiderate vedere al cinema sono fucili e ragazze.”
E allora, Jean-Luc, perché in questo film non hai messo più fucili e più ragazze?



Capitolo 7
Il bandito delle ore undici è un film con alcuni momenti meravigliosi. Lampi di grande cinema. Qualche dialogo spettacolare. Due protagonisti fenomenali e bellissimi come Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. Trovate geniali. Una varietà di idee che fa respirare libertà a pieni polmoni. La fuga dei due amanti criminali verrà ripresa e omaggiata da grandi film La rabbia giovane di Terrence Malick e Moonrise Kingdom di Wes Anderson.
Allo stesso tempo, Il bandito delle ore undici soffre di una mancanza di forza nel suo insieme. Non trascina del tutto. Non lascia a bocca aperta e senza respiro come lo spettacoloso esordio di Godard, Fino all’ultimo respiro.

Capitolo 1
“Tre film al giorno, tre libri alla settimana, dei dischi di grande musica faranno la mia felicità fino alla mia morte.”
Questo l’ha detto Francois Truffaut, l’altro reuccio della Nouvelle Vague francese, ma penso che la felicità anche per Godard non fosse tanto distante da questa definizione. Di certo non è tanto distante dal mio ideale di felicità.

(voto 7+/10)

R-HUMOR, le vignette di Rita Pelusio



Da oggi, l'attrice comica amica de l'Orablù (e ottima sarcastica matita) ci regala le sue vignette/riflessioni su vari temi di attualità!


...e con gran piacere pubblichiamo altre due vignette appena inviate da Rita!!!






lunedì 29 aprile 2013

Fumi, profumi e colori... (momenti a Marrakech)

Questa settimana partiamo con un novità: una nuova collaboratrice con un suo post nuovo di zecca. Lei è Irriverent Escapade e ha mandato una cartolina da Marrakech...


Abdullah, Abdu per gli amici, è un bell’uomo, dagli occhi fieri, elegantemente vestito di una candida tunica bianca. Non la porta tutti i giorni, anzi, solitamente veste all’occidentale, per lo più sponsorizzato da tour operators europei. Non sta mai fermo, Abdi, come lo chiamo io, quasi vezzeggiandolo. Quando cammina, passi lunghi e ben distesi, ha un non so che di marziale. Eccoci, siamo nella medina, al’ingresso del souk. “Che cosa volete vedere?” ci chiede il nostro accompagnatore. “Tutto Abdi, ogni cosa”. Abituato a richieste specifiche , rimane un po’ interdetto; forse sperava di cavarsela velocemente con noi. “Take it easy” gli dico io, oggi va così… Al seguito del nostro moderno condottiero ci addentriamo nelle strette e animatissime vie del souk, su e giù, passiamo attraverso la zona dei pellai, quella degli orafi dove una miriade di donne dalle vesti lunghe e dal capo coperto, si ferma davanti a queste vetrine che, i miei occhi, sinceramente, leggono cariche di paccottiglia. Abdi, captata al volo l’espressione della mia faccia, tira dritto e, non visto, tira pure un sospiro di sollievo. Non so dove posare il mio sguardo curioso ed incuriosito. Mi fermo ad osservare un fabbro che sta abilmente lavorando ad una cornice. Nel suo negozio ci sono anche molte lampade, in ferro e vetro. Belle. Questa starebbe bene sul mio tavolino da notte, penso…Voilà. Ecco che, velocissimo, il fabbro ha fiutato l’affare. Lascia immediatamente la cornice cui stava lavorando, si avvicina a me, biascica qualcosa in tedesco, “sono italiana” gli rispondo in francese (sorridendo tra me e me, pensando allo splendido Abatantuono di Marrakesh Express “Ponchià, je m’appelle Ponchià!!”) “Italia aah bella Italia…Italiano-Marocchino, una faccia, una razza!”, replica il nostro, additando il mio compagno. “Belli cose, belli cose, cosi vuoi tu, tu piaci lampada, regalo, prezzo regalo”. Inutile dire che, immediatamente, spara uno sproposito (per i prezzi locali), se sarà fortunato, dopo qualche minuto, i miei compagni cominceranno a scalpitare e io dovrò cedere ad un prezzo affare, solo per lui!!..Ma io non ho intenzione di mollare il colpo. Abdi si accende, rassegnato, la terza sigaretta consecutiva (ti fa male, smetti!), il mio compagno scuote il capo, ancor più rassegnato. La contrattazione comincia. Ben presto, intorno a noi, si raccoglie un gruppo di variegati personaggi, il popolo del souk. Un ragazzino (perché non è a scuola a quest’ora? Boh) con la maglia (taroccata, ca va sans dire) di Francesco Totti, si affianca a me, mi guarda con i suoi occhi scuri e vivacissimi, nel mio vorticoso mercanteggiare. E’ passata quasi mezz’ora, non posso cedere, è una questione di principio, ma nemmeno la mia controparte sembra voler lasciare, sta diventando una questione di principio anche per lui…ma alla fine cede, il mini show che sta interpretando con me, gli fa perdere altre vendite a vantaggio delle botteghe vicine.
“On y va, Abdi” dico soddisfatta e divertita. Imbraccio il mio primo trofeo, di questa strana (quanto incruenta) battuta di caccia, in questa splendida terra che è il Marocco, in questa magica città che è Marrakesh.
Quando, vittima di croniche turbolenze, l’aereo scende sulla città e l’occhio, immancabilmente viene rapito (e il passeggero distratto) dalle morbide curve che l’Atlante, visto dall’alto, disegna, ci si interroga sulla meta di arrivo. Il terreno, benché montuoso, appare dolce, le aride rocce hanno una parvenza meno sterile. Questo è solo l’inizio di una esperienza indimenticabile, un’altra appendice dell’inguaribile mal d’Africa.
Il Marocco è un Paese molto completo e Marrakesh altro non è che la sua immagine fatta a città. La più turistica delle Città Imperiali si presenta a noi con il suo abito più bello: la grande piazza Jemaa el Fna (letteralmente “la riunione dei trapassati”, luogo dove, un tempo, venivano eseguite le condanne a morte) al calar del sole. Tutto intorno si colora del caldo rosso del tramonto: cominciano ad accendersi i fuochi delle “cucine di piazza”, i venditori d’acqua, girano ancora più vorticosamente mentre si sciolgono piano piano i capannelli intorno ai farmacisti e ai dentisti ambulanti. Gli incantatori di serpenti e gli acrobatici saltimbanchi continuano il loro spettacolo per quei turisti che, timorosi di avventurarsi all’imbrunire nella sempre brulicante piazza, si sono, nel frattempo accomodati sulla terrazza del Café Glacier. E guardano, osservano, spettatori estranei ed immobili, la vita che scorre vorticosa sotto i loro piedi, in questa piazza sempre più rumorosa, sempre più colorata….salvo poi tornare alle loro borghesi realtà e raccontare di mirabolanti cose viste.
Il rassegnato e (ormai) rilassato Abdi ci guida attraverso le varie cucine. Sono incosciente e golosa: dimentico (volutamente) che le delicatessen che appaiono davanti ai miei occhi sono cucinate in ambiente poco igienico. Abdul assaggia e io, compiaciuta (malgrado il mio compagno mi redarguisca brandendo dell’enterogermina), lo imito. Non domando cosa sto mangiando, gusto e basta. Riconosco a tratti questa o quella spezia, mi lecco dalle dita, alternativamente, schizzi di piccantissima harissa o appiccicose lacrime di miele.
Ebbra di queste (per lo più) misteriose delizie mi faccio trasportare dall’entusiasmo. Vorrei tornare per un altro giro all’interno della medina. Categorico rifiuto da tutti i fronti. Smonto dal mio attacco di egoismo ed accetto di andare a sedermi e fare (per un po’) la normale turista. Perché no?! Evitiamo il Glacier e ci accomodiamo al Cafè de France. Fendendo letteralmente una bolgia umana, saliamo al primo piano, dove guadagniamo una buona postazione. Lo spettacolo della piazza che si apre sotto i miei occhi è quello di una grande onda colorata che si muove in un disordine affatto casuale, paradossalmente, ordinato. Cerco di togliere la messa a fuoco della mia vista e il tutto mi appare come un dipinto divisionista. Vorrei essere un artista e poter fermare i colori e le luci nel modo in cui i miei occhi (volutamente) sfocati li stanno vedendo. Ma purtroppo artista non sono.
Dal maggio 2001, l’Unesco ha proclamato questa piazza “Patrimonio orale dell’Umanità”. Non serve essere antropologi o sociologi per capirne le motivazioni. Basta lasciarsi guidare dai sensi, dall’istinto. Ascoltare, annusare, osservare con gli occhi del cuore ancor più che con quelli della ragione, senza aver troppa fretta. Si arriverà a penetrare veramente questa piazza, abbeverandosi della vita che da lei trabocca, così come fece un ormai vecchio (e cieco) Jose Luis Borges paragonandola alla musica delle dune del deserto.



Musica consigliata per la lettura:

Cheb Khalid - Wahran Wahran

Powered by mp3skull.com

I.E.

domenica 28 aprile 2013

Non è mai troppo presto per conoscere un prussiano


Ormai lo sanno anche i bambini che la vita è dura, e affilano le armi sin dalle prime classi. E i vecchi, nel loro rincoglionimento, ricordano solo che la loro infanzia era più serena della loro vecchiaia, in quegli anni c’era la mamma col suo sorriso dolce a mettere il piatto in tavola, e non una badante ottusa. Quindi lo so anche io che a volte la vita è dura, ma decisa ad avere un sorriso dolce, mi rifiuto di vederla come una lotta, eppure ogni anno che passa mi procuro nuove armi sempre più affilate. Quest’anno, ho a che fare con un Paese straniero e una lingua straniera: il primo mi ospita e mi dà lavoro, lungi da me sputare in questo piatto, e poi fra le altre cose che so, c’è che tutto il mondo è paese, e lo so per esperienza diretta. La seconda mi piace troppo per vederla come un nemico, eppure non è che lei collabori tanto con me per aiutarmi a capirla meglio: è snervante, a volte davvero demoralizzante, un giorno dico una frase giusta, con tutte le desinenze al loro posto, uso pure il congiuntivo passivo al passato*, il secondo giorno un cliente mi chiede se abbiamo un qualcosa anche in quest’altro qualcosa, e io sorrido come se mi sentissi lusingata dal complimento, anche se l’unica cosa che ho capito è che non è un complimento, e che avrebbe detto la stessa cosa ad un’altra collega, e che anzi avrebbe fatto meglio a dirlo a lei, così avrebbe avuto subito il suo fascicolo fuori serie della rivista specializzata in storia del Brandeburgo in edizione rilegata, anziché un mio sorriso fuori luogo e basta. Va da sé che in questi frangenti, qualunque sorriso io faccia, anche uno non lusingato, si traduce in un sorriso idiota.
Perciò ho deciso di tirar fuori la mia arma segreta contro il sentirmi costantemente stupida, infatti non posso aprirmi la testa e metterci dentro la lingua tedesca, perciò ho approfittato di una serie da tre di libercoli per bambini che trattano di un argomento che a me piace molto, la storia, sotto una forma che a me di solito non attira, la biografia, in un linguaggio completo eppur semplice, così finalmente ho provato l’ebbrezza di leggere anche in tedesco un libro in un giorno, e di capirlo. Sono o non sono un genio?


martedì 23 aprile 2013

Io e Annie

Io e Annie
(U-U-USA 1977)
Titolo originale: Annie Hall
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen, Marshall Brickman
Cast: Woody Allen, Diane Keaton, Tony Roberts, Carol Kane, Paul Simon, Shelley Duvall, Jeff Goldblum, Christopher Walken, John Glover, Beverly D’Angelo, Sigourney Weaver, Marshall McLuhan
Genere: woo-woo-woodyallen
Se ti piace guarda anche: Louie, Girls, Alta fedeltà, un altro film di Woody Allen a caso

I-i-io, be-beh ho un rapporto conflittuale con con… con chi? Co-con Woody Allen. Amato e odiato, sopravvalutato e sottovalutato, genio e ciarlatano, comico e drammatico, irresistibile e noioso, prova cose differenti e gira sempre lo stesso film, ba-ba-balbetta ma parla un sacco, fa un sacco di pellicole fondamentali e allo stesso tempo ne fa un sacco di inutili. Tutto e niente, questo è Woody Allen e be-be-beh io non ancora capito se più mi piace o più non mi piace e alla fine direi però i-i-io o-o-ogni tanto se-sento che de-devo vedere un suo film, ma non è che de-devo, è più che vo-vo-voglio cioè ho voglia di vedere un suo film.



Il mio rapporto con Allen è conflittuale anche perché trovo pa-pa-parecchio sopravvalutati suoi film osannati come capolavori assoluti come Manhattan e Match Point, no-no-nostante la presenza della mia Scarlett preferita, mentre altri sono un pochetto sottovalutati, come il grande Harry a pezzi o l’affascinante Sogni e delitti, o Vicky Cristina Barcelona e Scoop, sempre con la mia Scarlett preferita, e poi perché anche in tempi recenti è capace sia di piccole meraviglie come Midnight in Paris che grandi schifezze come To Rome With Love e poi pe-pe-perché gira tro-tro-troppi film. E-ecco, io questa cosa beh-beh, non la reggo. Io preferisco i registi che fanno un film ogni morte (o dimissione) di Papa e lo fanno aspettando il progetto giusto e curando tutti i dettagli in maniera maniacale, quelli che hanno una filmografia snella. Woody quanti film ha girato? Una cinquantina. Ma chi è che li ha visti tutti? Lui? Nemmeno lui, probabilmente.



I-i-io beh a-adesso ho voluto recuperarmi alla buon ora uno dei suoi più celebri lavori, I-Io e A-A-Annie che oh-oh-oh, non l’avevo ancora mai visto perché come ho detto ne ha fatti troppi e quando uno fa troppi film poi rischia che il pubblico non guardi quelli fondamentali e guardi quelli sbagliati tipo cioè io mi immagino le nuove generazioni che sentono parlare di questo grande autore newyorkese Woody Allen che insomma è una figura fondamentale del cinema e della scrittura cinematografica e come scrive monologhi e dialoghi lui be-be-beh ce ne sono pochi in giro e magari quel giovincello non ha mai visto un suo film e pensa: “Oh, mi guardo l’ultimo di Allen!” e si becca To Rome With Love con la Mastronardi e resta con gli occhi sbarrati e pensa che non vedrà mai più un altro lavoro di Allen in vita sua e sono queste le cose che capitano quando uno gira troppi film e si fa trascinare dagli eventi ed esce con una pellicola all’anno tanto per tanto pe-pe-perché così ormai ha preso l’abitudine e allora sono anche cavoli suoi cioè a me che mi frega se si sputtana così la carriera? che poi di solito 1 su 2 tra i suoi ultimi film è interessante e allora se invece di un film all’anno ne girasse uno ogni due anni sfornerebbe solo ottima roba oppure al contrario girerebbe solo quelli schifosi?



I-I-Io e A-A-Annie dicevo, beh sì dovevo vederlo perché ancora mi mancava e mi è piaciuto sì mi è piaciuto però ancora non è riuscito a risolvere il mio dubbio esistenziale se Woody Allen più mi piace o più non mi piace perché sì è un ottimo film ma allo stesso tempo a livello emotivo non l’ho amato completamente.
Il mio problema con Allen è che mi sta simpatico, alcune sue battute mi fanno morire, alcune trovate le trovo geniali eppure come emozioni un suo film non mi travolge del tutto forse perché è proprio lui che è fatto così, lui non si innamora, lui si infatua, passa da una donna all’altra da un progetto all’altro da un film all’altro salta di fiore in fiore in maniera rapida eppure alla fi-fi-fine si infatua sempre della stessa donna e realizza sempre la stessa pellicola con lo stesso protagonista: lui.
E-e-ecco, lui parla sempre di se stesso. Credo che l’unico che possa amare davvero e completamente i suoi film al ce-ce-cento per ce-ce-cento sia lui stesso. I-I-Io e A-A-Annie? No! Io e basta. E il titolo italiano è anche più giusto di quello originale: Annie Hall. Annie Hall? No, non è un film su Annie Hall, una spumeggiante Diane Keaton, è un film su Alvy, ma chiamiamolo pure con il suo nome: Woody Allen. Un po’ tutti i film di Woody Allen dovrebbero essere intitolati: Woody Allen. Questo è il loro principale limite. Più ti ritrovi in lui e più ti piaceranno. Contemporaneamente è anche il loro principale pregio perché Woody Allen è un personaggio magnifico, che resiste alla prova del tempo e che riesce a dire sempre qualcosa di arguto e interessante, riesce a essere intellettuale ma pure terra e terra, dallo spirito antico ma comunque moderno. I protagonisti di due delle migliori serie comedy degli ultimi anni come Louie e Girls non sono altro che variazioni personali su questo modo di raccontarsi. Louie alias Louis C.K. non a caso apparirà nel prossimo film di Woody Allen di rientro a New York e Lena Dunham delle Girls più che una versione indie di Sex and the City è il diario personale di una Woody Allen al femminile e pure loro sono egocentrici ed egotomani e pure loro sono newyorkesi, ci sarà qualcosa nell’aria o sarà che tutti i più egocentrici ed egotomani vanno a vivere lì e chi-chi-chissà forse mi dovrei trasferire lì anche io ma mi sa che non sono egocentrico ed egotomane abbastanza non ai livelli di Woody, Louie e Lena comunque no o forse sì?



I-i-io volevo parlare di I-I-Io e A-A-Annie e invece non l’ho ancora fatto e tanto beh tanto l’avete già visto tutti e anche se non l’avete visto potete immaginarvelo perché è il solito Woody, solo all’ennesima potenza e in forma creativa strepitosa, in questo film è un fiume in piena di parole di dialoghi di monologhi ed è tutto un grande flusso di coscienza in cui il suo rapporto con tale Annie Hall guidatrice pazza è giusto un pretesto per parlare come al solito di se se se stesso e mostrare le sue fisse e manie, il suo autismo/newyorkismo/egocentrismo estremo e qui lo fa con un dispiego di mezzi davvero creativo tra split-screen, cartoni animati, rottura della quarta parete e questo forse è un po’ il suo Amarcord, non a caso Fellini viene citato da un tizio saputello in fila al cinema, o forse tutti i suoi film sono un po’ i suoi Amarcord o meglio sono pagine di un diario e il bello così come il brutto delle sue pellicole è che c’è lui lui lui solo lui e non c’è spazio per altro anche se qui fa comparire persino il guru della comunicazione Marshall McLuhan e in brevi cameo ci sono pure Christopher Walken, Jeff Goldblum e Sigourney Weaver ma non hanno tanta importanza perché la riuscita di un suo film dipende fondamentalmente solo dal su-su-suo sta-sta-stato di forma e in I-I-Io & A-A-Annie Woody è in formissima è un vulcano di idee e creatività e comunque alla fine sì se devo scegliere se più mi piace o più non mi piace dico che Woo-woo-woody più mi-mi-mi piace.

(voto 8-/10)

Cannibal Kid

domenica 21 aprile 2013

Nero e blu








 Quella piccola notte si era infilata in un'altra più grande. Fuori in strada c’era freddo e silenzio. Fu così che Nora mi sussurrò in un orecchio: ci si sbaglia sempre a giudicare il cuore degli altri. Mi girai verso di lei e la fissai per un lungo istante dritto negli occhi, ma non sapendo  cosa dire restai in silenzio. Di sicuro a quel punto della mia esistenza non pretendevo da nessuno di essere consolato e, per di più, non mi sentivo vulnerabile negli affari di cuore. Le miserie più intime, quelle che raccogliamo nel carrello della vita, le spingevo benissimo da me. Forse  in un attimo di compassione umana, lei cercava il modo migliore per non ferirmi. Per dirmi che voleva andar via, che si sentiva soffocare, che rivoleva la sua libertà. Insomma era pronta a dirmi le solite bugie, quelle che si raccontano quando semplicemente non si ha più voglia di farsi scopare. Ma io ero già pronto, al riparo da tempo. Da quando un giorno ero scivolato nel buio guardando la pioggia cadere. Da allora non esigevo più nulla dal genere umano. Avevo imparato a resistere, senza un singhiozzo, senza una parola, senza un sorriso, senza niente. Troppe volte c’ero cascato e il risultato era stato quello di ridurmi in un colabrodo. Facevo acqua da tutte le parti.

sabato 20 aprile 2013

Slam Poetry vs Blues

Serata dedicata ai movimenti giovanili a L'OrablùBar: la mostra fotografica di Jordan Cozzi, studente del quinto anno del liceo artistico Lucio Fontana di Arese, e Slam Poetry vs Blues, a breve anche qui in diretta streaming... buona visione.



Streaming live video by Ustream

venerdì 19 aprile 2013

Ogni fiume o a delta o a estuario sfocia in un’interpretazione.

Quando studiavo all’università, avevo messo a punto un delicato e geniale metodo per spendere soldi in libri. Poco male, verrebbe da dire, i libri son cultura, son soldi spesi bene. Se se ne hanno in quantità dimostrabili, sì. Il mio metodo aveva dalla sua una semplicità che non era visibile a occhio nudo, perché sottostava a complicati calcoli inutili, infatti a me bastava leggere il programma per innamorarmi di un corso e decidere di comprare subito tutti i libri in bibliografia, dopo aver opportunamente calcolato se in quei giorni a quell’ora avrei potuto frequentare le lezioni, e se fosse possibile scegliere orari solo pomeridiani, salvo scoprire che quel corso era assolutamente incompatibile col mio piano di studi, per meri motivi burocratici, o che quell’esame avrei potuto darlo non prima del terzo anno, tanto valeva aspettare il terzo anno e la pubblicazione del nuovo programma del corso, con conseguente nuova bibliografia. E così ben presto mi ritrovai con un bel po’ di testi interessantissimi, complice non tanto l’Amore per i libri, personcina volubile, quanto il Senso del Dovere, compagno di bevute da sempre, che mi porta ancora oggi a prevenire anziché aspettare conferma, e conseguentemente a fare acquisti non necessari di interessantissimi testi che però finora non avevo mai letto, scippata del tempo necessario sempre da qualcosa di più importante a cui dedicare la mente. In altri casi mi son trovata invece a depennare un insegnamento dal mio piano di studi ad un passo dal dare l’esame, perché purtroppo il docente di cui seguivo il corso, programma allettante a parte, era risultato essere quanto di più fossilizzato e noioso il sottobosco universitario potesse offrire, impossibile anche solo pensare di preparare un esame con lui, anzi per lui, perché è questo che distingue un docente in cattedra da uno in gamba,  cosa che però si può scoprire solo seguendo le lezioni, comprando il libro, leggendolo, e notando che quelle lezioni un po’ fredde, sì, e impostate, è vero, non sono altro che il riassuntino liceale, con le stesse parole, ma in numero inferiore, dei capitoli del libro, peraltro l’unico in bibliografia, ovvero: 25 euro di libro, per non parlare della tassa universitaria, per farmi fare i riassuntini dalla docente, una tipa laureata in Lettere, e pertanto convinta del fatto che noi studenti universitari, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per il sistema scolastico scadente che ci fa arrivare impreparati all’università, non siamo in grado di riassumerci un libro da soli, cosa peraltro inutile ai fini dell’apprendimento. Il programma allettante offriva anche la possibilità di costruire il proprio esame scegliendo un testo per ogni genere da una lista di romanzi, racconti, novelle e poesie della letteratura tedesca, di per sé ingovernabile, per quanto riguarda il gusto macabro per le periodizzazioni, le quali a loro volta, per quanto riguarda il mio gusto, sono il motivo per cui a me in fondo la letteratura da studiare non andava molto a genio, preferivo leggere romanzi, racconti, novelle, e poesie per il piacere di leggerle e non per quello di riuscire ad etichettarle, ma così funzionano gli studi, e se uno vuole laurearsi, deve accettare le etichette, io infatti non mi sono laureata, ma ho con me un bel bagaglio di libri. Perciò, dopo anni da questo episodio, mi sono ritrovata in casa un libro di Heinrich von Kleist, del quale so solo che, se lo comprai, fu perché in qualche modo mi aveva affascinata più di altri presenti nella lista, spingendomi a sceglierlo per il mio esame, che mai diedi. Nel libro di Kleist in mio possesso sono contenuti due racconti, La marchesa di O… e Michael Kohlhaas. Ora, io dei sue protagonisti, la marchesa e Kohlhaas, non so chi sia il più sfigato, ciò che so è che, se si vuole leggere sul treno mentre si va e si torna dal lavoro, questo non è il libro adatto, perché non c’è un punto in cui tenere il segno, allo stesso tempo credo che se l’avessi letto a casa nel mio giorno di riposo, forse non avrei fatto caso alla sua caratteristica più importante: è scritto tutto d’un fiato, con pochi accapo, punti sì, ma senza esagerare, virgole e punti e virgole a iosa, nessuna divisione interna in paragrafi, nemmeno un capoverso che sia uno, naturalmente nessun discorso diretto a meno che non sia mescolato all’indiretto, ossia: il discorso inizia coi due punti, a volte seguiti da virgolette, ma è riportato alla terza persona come discorso indiretto, almeno nel Michael Kohlhaas, perché ne La marchesa di O… nemmeno questo, insomma nemmeno aperte virgolette, via una frase dopo l’altra a botta e risposta dove è lecito supporre chi abbia detto cosa, come anche sbagliarsi e dover rileggere d’accapo, perché neanche la punteggiatura classica, punto pausa forte, virgola pausa debole, viene in aiuto, punto dove capita, virgola se va bene, punto all’interno della stessa voce, virgola a separare domanda della madre e risposta della figlia, quasi fosse un tentativo maldestro di stenografare in tempo reale un dialogo, nonostante la situazione sia così straordinaria che mi è lecito dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una dichiarazione, che la mia coscienza è pura come quella dei miei figli; la vostra, onoratissima madre, non può essere più pura. Tuttavia vi prego di lasciarmi chiamare una levatrice, perché io mi convinca di ciò che è e poi mi tranquillizzi, indipendentemente da che cosa sia. Una levatrice! esclamò la signora di G… avvilita. Una coscienza pura e una levatrice! e la voce le mancò. Una levatrice, madre carissima, ripeté la marchesa, inginocchiandosi davanti a lei, e in questo stesso istante, altrimenti diventerò pazza. Oh, molto volentieri, ripeté la moglie del comandante; solo ti prego di non partorire in casa mia. E con questo si alzò e fece per lasciare la stanza. […] Non abbandonatemi in questo momento terribile! Che cosa ti inquieta? chiese la madre. Non è nient’altro che il verdetto del medico? Nient’altro che una sensazione interiore? Nient’altro, madre mia, replicò la marchesa, e si portò la mano al petto. Niente, Giulietta? continuò la madre. Rifletti. E noi che leggiamo riflettiamo concentrati, almeno per capire chi è la stessa persona di chi, cioè abbiamo la marchesa, la signora di G, Giulietta, la moglie del comandate, la madre e la figlia, che in totale fanno due persone che parlano dello stato interessante della figlia, che è davvero interessante perché lei stessa non saprebbe dire come sia rimasta incinta, eppure di figli ne ha già due, dovrebbe sapere come si fanno i bambini, anzi è proprio perché lo sa, che crede di diventare pazza, la mamma non è che le creda molto, ma è così, intanto discutono e poi fanno pace e oltre a costruzioni classiche delle frasi ce ne sono altre che, per forma e significato, sono ancora attuali, anche se il materiale che le compone è d’epoca: la marchesa cercava di consolarla con implorazioni e carezze senza fine: ma giunse la sera e batté mezzanotte prima che le riuscisse, da cui si può notare anche l’uso dei due punti dove una virgola andava bene, e da cui si immagina che non sia il caso di ripetere all’infinito i loro botta e risposta, passiamo al giorno dopo. Nell’insieme infatti, questo stile senza sosta apparente, è la quintessenza del riassunto veloce ma esaustivo, che fa passare i giorni e le notti, snocciolando uno dopo l’altro gli avvenimenti senza perdersi in chiacchiere o, se sì, senza perdersi in due punti aperte virgolette. Altre espressioni, altrettanto esaustive, colgono di sorpresa, perché non sembra un racconto che possa contenere un po’ di poesia, nonostante non arrivi mai ai livelli di un giuramento davanti al giudice, per questo, il loro cuore batteva talmente forte che se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito, giunge inaspettato nel bel mezzo di un resoconto. La storia ha di bello, a parte questo, che quando finisce lascia aperta la via non al finale, perché quello c’è, ma all’interpretazione che, se non avessi letto quella bastarda di prefazione, io non so se avrei condiviso perché credo che a me sarebbe sembrato altro, o forse senza suggerimento, semplicemente sarei stata più attenta. Per evitare di ripetere l’errore, non ho letto la postfazione relativa al secondo racconto prima di leggere il secondo racconto, quello che parla di un certo Kohlhaas e delle sue disavventure che, devo dire, una dopo l’altra ad un certo punto cominciavano a sembrare troppe anche a me, che verso Kohlhaas ero ben disposta, certo un po’ se le andava a cercare ottusamente, un altro po’ si aggiungevano quasi a voler dire che ad esagerare poi si paga e agli occhi di tutti si diventa cattivi, ma così sfioro l’interpretazione scolastica e moralista che avrebbe fatto la docente liceale laureata, quindi passo oltre perché gli spunti interessanti non mancano, e non si tratta della mancanza di “colori allusivi e simbolici […] tipici della prosa romantica tedesca” come dice nelle prime righe la postfazione, quella che sono riuscita a trattenermi dal leggere giusto in tempo, ma è semmai il carattere buono e buonista del protagonista ad attirare l’attenzione, dell’aspetto buono del suo carattere ci viene detto chiaramente, l’aspetto buonista lo supponiamo noi perché si parla di scandali e ingiustizie per cose che potrebbero sembrare da poco, eppure anche al mercante di cavalli Kohlhaas può salire il sangue alla testa, e gliene fai una e gliene fai due, e gli ammazzi i cavalli e gli ammazzi la moglie, alla fine al mercante il cuore batteva contro la giubba. Aveva voglia di gettare lo spregevole trippone nel fango e di premere il piede sulla sua faccia di bronzo. Ma il suo senso della giustizia, che assomigliava al bilancino di un orefice, esitava ancora; e sbuffare è facile, fallo, dagli almeno un pugno, verrebbe da urlargli, ma niente, finché il gran giorno arriva, quello in cui Kohlhass, il mercante di cavalli, riscatta tutti gli sfigati che nella vita hanno avuto a che fare con colleghi coglioni, che chiamarli colleghi è un’offesa al mondo del lavoro onesto, infatti entrando nella sala Kohlhaas prese per il petto un nobiluomo, che gli andava incontro e lo scaraventò in un angolo della sala così che battendo contro la pietra il cervello ne schizzò fuori. Come se non bastassero la carenza di punti fermi, l’assenza di accapo e di paragrafetti, ecco che anche la sintassi ci giura che la vita non aspetta e non è semplice, il principe elettore, che a quelle parole il nobiluomo aveva guardato sgomento, si volse arrossendo in tutto il volto e andò alla finestra, dove le parole che provocano sgomento nel nobiluomo sono del principe elettore, al quale si rivolge appunto lo sguardo sgomento del nobiluomo, non lo stesso che prima è stato scaraventato a terra, perché con il cervello di fuori non avrebbe potuto indirizzare uno sguardo sgomento a chicchessia, è chiaro. Da un certo punto in poi si discute appunto di questa violenza inaudita, e dell’opportunità di lasciar circolare Kohlhaas liberamente, e a tal proposito giunge una risposta governativa del seguente tenore: “la sua richiesta di lasciapassare per Kohlhassenbrück sarebbe stata sottoposta al serenissimo Principe Elettore; non appena giungesse la di lui altissima autorizzazione, gli verrebbero inviati i lasciapassare”, dove il contenuto indiretto è presentato formalmente come diretto, tramite i due punti aperte virgolette che ogni tanto, in questo secondo racconto, fanno capolino, cosicché appena ci si abitua a questa forma, la lettura prosegue liscia e senza pause, come previsto dall’assenza di accapo. La presa di distanza verbale all’interno del discorso riportato, nonché la stessa forma del discorso riportato sono segnali che ci insinuano il dubbio che si tratti di una storia che l’autore semplicemente riporta così come l’ha sentita, come quando gli spedì un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco appena comprensibile: “Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la guida della banda…” e così via, e alla forma si aggiungono aperte dichiarazioni a ricordarci che il racconto è vero, “da un’antica cronaca”, diceva infatti il sottotitolo!, ma poiché non sempre la verosimiglianza cammina al fianco della verità, accadde che si era verificato quello che adesso racconteremo: ma dobbiamo concedere la libertà di dubitarne a chiunque lo desideri: il ciambellano aveva commesso il più terribile degli errori, frase che conferma che Kohlhaas era sfigato all’inverosimile, però non preoccupiamoci di dove si recasse effettivamente e se si fosse diretto a Dessau, perché le cronache che abbiamo messo a confronto per questa relazione su questo punto si contraddicono e si annullano reciprocamente in modo singolare, affermazione, questa, che diventa più frequente più avanti nel racconto, come dire che mentre Kohlhaas faceva il bello e il cattivo tempo, abbiamo dati certi, immagino i racconti popolari, quando si tratta di ricostruire i passaggi storici, prevalgono invece i dubbi, infatti Kohlhaas incontra la Storia, nella persona di Lutero, che entra in contatto con lui con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole, che però è andata perduta. Nell’ultima parte del racconto, infine, arriva un elemento magico e misterioso a spezzare l’avventura rocambolesca di Kohlhaas, e attorno a questo mistero, che non sto a dirvi se valesse la pena svelare oppure no, si attorcigliano gli ultimi fili del racconto, portandoci fino ad un passo dalla conclusione con un ulteriore lettera che ci lascia col fiato sospeso, e una scena che molti film a colori hanno copiato, ossia quella in cui qualcuno in fin di vita sta per rivelare un grande segreto, ma muore prima di finire la frase: nei film di solito dà inizio alle peripezie del protagonista, oppure, nel mezzo del film, gliele complica, oppure, nelle telenovele, aggiunge un migliaio di puntate e non verrà mai svelato perché nel frattempo ci si dimentica di quella mezza frase, con buona pace degli autori che in realtà la fine non l’avevano mai pensata, in ogni caso non sarebbe servita perché la persona morta a metà della frase resuscita almeno due volte nelle mille puntate successive, mentre in questo racconto nessuno muore a metà della frase, anche se forse qualcuno resuscita, perciò Kohlhaas, girandosi estremamente turbato verso il custode, gli chiese se conoscesse la strana donna che gli aveva consegnato il biglietto. Tuttavia il custode rispose: “Kohlhaas, la donna…” e si fermò stranamente in mezzo alla frase, egli, trascinato via dal corteo che in quel momento si mise in moto, non poté capire cosa disse l’uomo, che sembrava tremare in tutto il corpo, cioè dopo pagine e pagine di cavilli giudiziari, pendenze, amnistie, pene e colpe, ecco un piccolo tocco di vita che viene bloccato sul nascere, e siccome si tratta dell’unica volta, a parte un racconto lungo che fa Kohlhaas in risposta ad una domanda, in cui le virgolette indicano un discorso in cui l’interrogato risponde direttamente al suo interlocutore a parole sue, chiamandolo addirittura per nome e arrivando al dunque, credo che Kleist si sia preso paura di questo azzardo e non abbia concluso la frase per pura ansia da prestazione, il racconto continua pertanto in terza persona, ma a quel punto Kohlhaas e l’uomo che aveva visto la donna vengono separati dalla folla, e anche se un’idea ce la siamo fatti, noi ancora non possiamo esser messi a parte del segreto.

La marchesa di O… / Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, tradotto da Silvia Bortoli (introduzione di Dacia Maraini, postfazione di Silvia Bortoli)

Citazioni dai due racconti.
da La marchesa di O…:
1) “nonostante la situazione sia così straordinaria che mi è lecito dubitarne. Io giuro, poiché ciò nonostante c’è bisogno di una dichiarazione” ecc.. fino a “rifletti”;
2) “la marchesa cercava di consolarla con implorazioni e carezze senza fine: ma giunse la sera e batté mezzanotte prima che le riuscisse”;
3) “il loro cuore batteva talmente forte che se il fruscio del giorno avesse taciuto, lo si sarebbe sentito”;
da Michael Kohlhaas:
4) “al mercante il cuore batteva contro la giubba” ecc.. fino a “esitava ancora”;
5) “entrando nella sala Kohlhaas prese per il petto un nobiluomo, che gli andava incontro e lo scaraventò in un angolo della sala così che battendo contro la pietra il cervello ne schizzò fuori”;
6) “il principe elettore, che a quelle parole il nobiluomo aveva guardato sgomento, si volse arrossendo in tutto il volto e andò alla finestra”;
7)giunge una risposta governativa” ecc.. fino a ”gli verrebbero inviati i lasciapassare”;
8)spedì un uomo con una lettera del seguente tenore, scritta in un tedesco appena comprensibile: ‘Se voleva venire nell’Altenburg a riprendere la guida della banda…’”;
9)ma poiché non sempre la verosimiglianza” ecc.. fino a ”il più terribile degli errori”;
10) “non preoccupiamoci di dove si recasse” ecc.. fino a “in modo singolare”;
11) “con una lettera autografa, senza dubbio molto notevole, che però è andata perduta”;
12) “Kohlhaas, girandosi estremamente turbato” ecc.. fino a “sembrava tremare in tutto il corpo”.
Elle

mercoledì 17 aprile 2013

Alta fedeltà



Alta fedeltà
(UK, USA 2000)
Regia: Stephen Frears
Sceneggiatura: D.V. DeVincentis, Steve Pink, John Cusack, Scott Rosenberg
Tratto dal romanzo: Alta fedeltà di Nick Hornby
Cast: John Cusack, Iben Hjejle, Todd Louiso, Jack Black, Lisa Bonet, Catherine Zeta-Jones, Tim Robbins, Lily Taylor, Joan Cusack, Joelle Carter, Natasha Gregson Wagner, Drake Bell, Bruce Springsteen, Sara Gilbert
Genere: musicalesistenziale
Se ti piace guarda anche: About a Boy - Un ragazzo, L’amore in gioco, Non mi scaricare, School of Rock, Be Kind Rewind, Non per soldi… ma per amore

Dovete sapere che la creazione di una grande compilation richiede più fatica di quanto sembri. Devi iniziare alla grande, catturare l’attenzione! Allo stesso livello metti il secondo brano, e poi devi risparmiare cartucce inserendo brani di minore intensità. Eh... sono tante le regole.
Rob Gordon/John Cusack (Alta fedeltà)



La creazione di una recensione segue all’incirca le stesse regole di quelle di una compilation. L’attacco dev’essere qualcosa che attira subito l’attenzione, e cosa meglio di una bella citazione pronta e servita su un piatto d’argento?
Alta fedeltà è fatto apposta per essere citato. Il libro ancora più del film. Che poi va sempre così. Il libro è meglio del film e anche questo è il caso. Però, per quanto il romanzo originale di Nick Hornby sia ancora più mitico, la trasposizione cinematografica è davvero ottima e rimane anche a distanza di qualche annetto una delle commedie più scoppiettanti e divertenti del nuovo millennio. L’ambientazione è passata da Londra a Chicago, si è americanizzato il tutto, alcune cose sono state semplificate ma per me resta un buonissimo esempio di come adattare un romanzo cult in una pellicola cult allo stesso livello o quasi.

Top 5 delle trasposizioni cinematografiche da libri che ho letto
1) Le regole dell’attrazione da Bret Easton Ellis
2) Il giardino delle vergini suicide da Jeffrey Eugenides
3) Il silenzio degli innocenti da Thomas Harris
4) Fight Club da Chuck Palahniuk
5) Trainspotting da Irvine Welsh




Per il protagonista di Alta fedeltà, Rob Gordon nel film/Rob Fleming nel libro, una compilation deve riuscire a parlare di te stesso, sfruttando però l’arte creata da altri. Ed è anch’essa un’arte. Una cosa valida per le canzoni, così come pure per i film. Se dovessi fare una top 5 dei film che parlano in qualche modo di me, ci metterei sicuramente dentro Alta fedeltà per la passione musicale dei vari personaggi e per la mania maniacale del protagonista di fare liste. Ancora di più mi ritrovo però nel protagonista di un altro romanzo di Nick Hornby, About a Boy - Un ragazzo, anch’esso trasposto in una pellicola americanizzata ma comunque godibile, nonostante l’attualizzazione della vicenda agli Anni Zero abbia eliminato i riferimenti a Kurt Cobain che rendevano il romanzo ancora più memorabile.

Top 5 dei film con cui in qualche modo mi identifico con i protagonisti
1) About a Boy
2) Alta fedeltà
3) (500) giorni insieme
4) Drive
5) Noi siamo infinito

Tornando fedeli ad Alta fedeltà, tra l’altro titolo geniale, è una pellicola ovviamente ad altissimo tasso di musicalità. Con dei personaggi del genere, d’altra parte, non poteva essere altrimenti. Per chi non lo sapesse, Rob/John Cusack è infatti un ex dj proprietario di un negozio di dischi, assistito da due altri geek musicali non da meno: il timido Todd Louiso, di recente riciclatosi come regista ma con risultati decisamente pessimi (vedi Un microfono per due), e lo scatenato Jack Black, il cui successivo School of Rock sembra quasi uno spinoff ritagliato sul suo personaggio in Alta fedeltà.

Top 5 interpretazioni di Jack Black
1) Alta fedeltà
2) School of Rock
3) Be Kind Rewind
4) Amore a prima svista
5) King Kong



Anche io da ragazzino sognavo di lavorare un giorno in un negozio di dischi. Poi sono arrivati Napster e la crisi dell’industria musicale e oggi aprire un negozio di dischi appare un’idea furba tanto quanto mettere su un Blockbuster. Tanto per dire, il proprietario del record store della mia cittadina in cui andavo a comprare i CD da teenager adesso s’è messo a fare il becchino, fatto che trovo particolarmente simbolico e ironic, come canterebbe Alanis Morissette. O, come canterebbe Bob Dylan, the times they are a-changin’…

Top 5 dei miei lavori ideali
1) Marito mantenuto di Jennifer Lawrence
2) Selezionatore di musiche per spot pubblicitari
3) Fare il terzo Daft Punk
4) Assaggiatore di birra Guinness
5) Recensore cinematografico pagato profumatamente

Tre malati di musica le cui vite nel negozio di dischi e fuori sono accompagnate da una colonna sonora che passa da Marvin Gaye ai Belle and Sebastian, da Elton John a Bruce Springsteen (presente anche in un cameo che avrà fatto avere un attacco di cuore al mio blogger rivale Ford), passando per Joan Jett, Katrina & the Waves, Chemical Brothers, Goldie, Velvet Underground, Bob Dylan, Stereolab e un sacco di altri.



Top 5 canzoni del film
1) Jack Black nella cover di “Let’s Get It On” di Marvin Gaye
2) Beta Band “Dry the Rain”
3) Lisa Bonet nella cover di “Baby I Love Your Way” di Peter Frampton
4) Belle and Sebastian “Seymour Stain”
5) Stevie Wonder “I Believe (When I Fall in Love It Will Be Forever)”

Oltre a quei tre disgraziati dei personaggi maschili, sfilano anche la tipa presente e le ex di Rob/John Cusack. Una galleria di donne molto variegata in cui spiccano una Catherine Zeta Jones spumeggiante e una bona Lisa Bonet, mentre più in ombra resta la protagonista femminile vera e propria, l’impronunciabile danese Iben Hjejle, che dopo questa pellicola non stupisce sia tornata abbastanza nell’oblio.

Top 5 donne di Alta fedeltà
1) Catherine Zeta Jones
2) Lisa Bonet
3) Natasha Gregson Wagner (la giornalista musicale)
4) Iben Hjejle
5) Joelle Carter



Musica, donne, risate, qualche momento più introspettivo ma non troppo, una serie di personaggi fantastici… difficile chiedere di più a una commedia. Spiace averla tradita con altri film negli ultimi anni, ma a ritrovarla Alta fedeltà è ancora in splendida forma e una botta gliela si dà di nuovo più che volentieri. Anche più di una. Fino a che non capiterà di innamorarsi di nuovo.

(voto 8+/10)

Cannibal Kid

lunedì 15 aprile 2013

Sabato 20 aprile: L'Ora è già domani. Giovani e cultura contro la crisi.




Primo vero appuntamento organizzato e pensato per e con i giovani:
L'ORA È GIA' DOMANI
Giovani e cultura contro la crisi


SABATO 20 APRILE 2013
L'OrablùBar - Piscina Comunale di Bollate

alle 19.00
Inaugurazione mostra fotografica di
JORDAN COZZI
Talentuoso fotografo, bollatese, studente al quinto anno del liceo artistico Lucio Fontana di Arese, Jordan inaugura lo spazio espositivo che L'Orablù mette a disposizione dei giovani talenti.



alle 21.00
SLAM POETRY vs BLUES

SLAM vs BLUES è una serata in cui sul palco si alterneranno, sovrapporranno, incroceranno le poesie sveglie di poeti vincitori di molte slam poetry, con le note della versione più acustica del caldo suono blues dei Jesus on a Tortilla. È quello che succede quando bluesmen incontrano slammers e rap-poeti, che non contenti di limitarsi alla stima, ai complimenti, alla curiosità che nutrono verso i reciproci altrui mondi decidono di condividere il palco per una serata.



sabato 13 aprile 2013

Nel mio quartiere

Salutiamo il ritorno di Bartolo Federico sul nostro blog con una novità: a fine articolo potete scaricare una playlist con alcuni brani citati nel post. Buona lettura e... buon ascolto ;-)


Ero lì che ascoltavo e intanto speravo, aspettavo, che so, un treno, un bacio, una cattiveria. Attendevo che qualcuno mi venisse a prendere. Ma non accadeva mai nulla. Era tutto grigio e monotono sopra la mia vita. Mi alzai dalla poltroncina in similpelle marrone e chiusi la porta della stanza. Volevo stordirmi di parole e musica. Seduto sull’immaginaria riva di un fiume, osservavo quelle piccole onde che il vento formava sul pelo dell’acqua. Erano incessanti come le passioni. Il disco continuava a suonare e l’armonica di Racing in The Street lacerava le mie barriere. Allora non avevo fantasmi intorno a me. C’erano invece promesse, fiori colti in un giardinetto e ideali. Vero, avevano tutti l’aria un po’ triste, ma mi tenevano in piedi. Oh Thunder road, Oh Thunder road…


giovedì 11 aprile 2013

Evento previsto del 13 aprile ANNULLATO

ATTENZIONE!!!

La cena teatrale `Invito a cena con nudoecrudoteatro - La rivoluzione (non) è un pranzo di gala` prevista per il 13 aprile a L`OrablùBar è stata ANNULLATA per cause di forza maggiore.
Ci scusiamo per il disagio.

L`Orablù
Associazione Culturale

Cause the sweetest kiss I ever got is the one I've never tasted









Questa è la storia vera di un amore condiviso.
Mi innamorai la prima volta che sentii quelle note. Era una chitarra, credo, forse un banjo, non lo so, io non me ne intendo. Suonava, questo conta, ed io mi lasciai rapire.. ah, ecco il violino. O cos’era. E poi quella piccola pausa per riprendere fiato, entrava un altro strumento in scena, più cupo, che tracciava la linea della malinconia, tornava il violino, o cos’era, la chitarra non abbandonava, anzi.. ora attaccava seriamente. Ora iniziava davvero.

martedì 9 aprile 2013

Lost In Translation


Lost in Translation - L’amore tradotto
(USA, Giappone 2003)
Regia: Sofia Coppola
Sceneggiatura: Sofia Coppola
Cast: Scarlett Johansson, Bill Murray, Giovanni Ribisi, Anna Faris, Catherine Lambert, Fumihiro Hayashi, Hiroko Kawasaki, Daikon
Genere: straniero
Se ti piace guarda anche: Prima dell’alba, Prima del tramonto, Somewhere, (500) Giorni insieme, The Grudge
  -->
Un film che si apre con un primo piano delle chiappe di Scarlett Johansson, ma cioè, dove lo trovate? E un film con un’apertura del genere secondo voi può non essere un cult cannibale assoluto?
Sapete già la risposta.
Io mi rendo che a qualcuno un film come Lost in Translation può non dire niente. Mi rendo conto che per qualcuno è come vedere un film in giapponese. Il punto è proprio questo: non è un film comprensibile per tutti. Per qualcuno, qualcosa andrà perso per sempre nella traduzione. Vedrà le immagini, ma non afferrerà il loro senso.
Traduco: se non sei indie, non puoi apprezzare, non puoi proprio capire questo film. E se sei indie, non puoi dire di essere indie perché altrimenti non lo sei più. Chiaro?

Vedendolo con sguardo superficiale, si può pensare che in questo film non succeda un granché. Invece mostra esattamente cosa si prova a sentirsi estranei in un paese straniero e mostra cosa si prova a innamorarsi. Se per voi è poco… Uno di quegli amori destinati però a risolversi con un grande nulla di fatto, ma che solo per questo non significa non sia un’ esperienza importante.
Fondamentalmente, Lost in Translation è queste due cose: una storia d’amore/amicizia e anche il racconto dell’avventura giapponese di due cittadini americani, tra camere d’hotel, karaoke e strane usanze orientali. Bill Murray alle prese con tali usanze è qualcosa di sottilmente esilarante. Basta un solo suo sguardo per avere un effetto comico che gente come Enrico Brignano o Alessandro Siani o qualcun altro di questi pseudo umoristi si può giusto sognare.



Quest’esperienza è però vista soprattutto attraverso il punto di vista di Scarlett Johansson, alter ego dell’autrice Sofia Coppola. È chiaro che il suo racconto, forse in parte autobiografico, ci presenta una visione parziale di Tokyo e del Giappone. La visione di chi c’è passato per gli hotel di lusso e non per i bassifondi, dopo tutto è pur sempre la figlia di un certo Francis Ford. La sua visione del mondo comunque non è quella di chi se la tira perché frequenta i ricchi e famosi, ma semmai è quella di chi li prende allegramente per il culo. Il maritino di Scarlett interpretato da un Giovanni Ribisi meno inquietante del suo solito è il classico fotografo dei VIP iperattivo nei confronti del lavoro, meno nei confronti della mogliettina gnocca. Ancora più evidente la parodia delle star hollywoodiane nel personaggio di Anna Faris, una simil Cameron Diaz superficiale e oca. Sicuri quindi che Sofia Coppola proponga una visione così radical-chic? Non è forse il contrario?



Per quanto riguarda la parte sentimentale, Lost in Translation è un classico boy meets girl movie. Correggiamoci subito: un old boy meets girl movie. Bill Murray, divo hollywoodiano in trasferta in Giappone per girare uno spot per il Suntory whisky, finisce mica scemo per vedersi con Scarlett Johansson, altra ospite occidentale dell’hotel in cui alloggia e come lui in crisi matrimoniale. Il loro è un rapporto d’amicizia? D’amore? Un rapporto paternalistico?
Forse una sola tra queste cose, forse tutte queste cose combinate insieme, il bello del film è quello di lasciare libera l’interpretazione. L’altra cosa splendida del film è Scarlett Johansson, qui di una bellezza folgorante, persino più del solito. Una bellezza fine, tipicamente coppoliana. La bellezza di una giovane attrice non ancora del tutto consapevole del suo enorme fascino e che questa pellicola avrebbe trasformato in un’icona e sex-symbol mondiale.

L’altro punto di forza del film è come Sofia Coppola è riuscita a creare non solo un film o una storia d’amore, ma un’atmosfera. Lost in Translation è una sensazione realizzata oltre che tramite i due protagonisti attraverso una fotografia magnifica e una colonna sonora ultra cool sbalorditiva che comprende Jesus and Mary Chain, Peaches, Death in Vegas, Phoenix, Sebastien Tellier, Air, Squarepusher, Chemical Brothers e My Bloody Valentine, oltre alle fantastiche scene di karoke. Bill Murray che canta stonato ma emozionato “More Than This” dei Roxy Music e Scarlett Johansson che con tanto di parrucca rosa intepreta “Brass in Pocket” dei Pretenders sono due momenti impagabili.



Lost in Translation è una sensazione difficile da descrivere a parole. Impossibile da definire con le parole. La stessa Sofia Coppola ne è consapevole e quindi con una trovata geniale alla fine lascia tutti con un palmo di naso, con le parole pronunciate da Bill Murray all’orecchio (sexy pure quello) di Scarlett Johansson che si perdono in mezzo ai rumori della folla, lost in the noise.
(voto 9+/10)

In chiusura, partecipa anche tu al TOTO BILL MURRAY!
Cosa ha sussurrato Bill Murray all’orecchio di Scarlett Johansson durante il loro ultimo incontro?

1) Arigatò!
2) Non averti trombata rimarrà per sempre il più grande rimpianto della mia vita.
3) Supercazzola prematurata con scappellamento a destra come se fosse antani.
4) Non sposare Ryan Reynolds, Scarlett: divorzierete perché lui ce l’ha piccolo.
5) Sofia Coppola è una furbona: il mio dialogo finale non è un granché e così mi ha abbassato il volume.
6) Lo ammetto: sono stato io a mettere le foto di te nuda in rete.

Ed ecco la vera risposta.



Cannibal Kid

Supermilano e L’Orablù




Dal sito di Supermilano:
Per la sua sesta edizione la “SETTIMANA FRA LE GROANE”, una delle iniziative culturali più attese e apprezzate di tutto l’hinterland milanese, accoglie nel titolo l’ampliamento territoriale rappresentato dalla nascita del nuovo Sistema Culturale SUPERMILANO e si fa promotrice della nuova sfida per la valorizzazione del territorio.
Il progetto coinvolge i 16 comuni del territorio e i comuni limitrofi di Cesano Maderno, Desio, Limbiate e Paderno Dugnano e ha fra i suoi principali obiettivi quello di valorizzare un territorio ricco di testimonianze artistiche culturali, nell’ottica di un recupero delle radici storiche e di una maggiore sensibilizzazione nei confronti dei luoghi di appartenenza.
Per 9 giorni, da sabato 13 a domenica 21 aprile, tutti i comuni coinvolti aprono le porte dei loro siti artistici e ambientali più interessanti: ville, chiese, spazi d’arte, parchi e cascine, a due passi da Milano, aperti gratuitamente con visite guidate, eventi e percorsi tematici.
Protagonisti dell’iniziativa sono gli studenti delle scuole superiori e i volontari che si cimentano come guide turistiche per accompagnare i visitatori all’interno dei beni. Partecipano anche le Associazioni dell’intero territorio che organizzano gratuitamente eventi e manifestazioni collaterali.
Proprio dalla straordinaria esperienza di collaborazione dell’iniziativa realizzata dal Polo Culturale Insieme Groane nasce infatti SUPERMILANO, il nuovo Sistema Culturale del Nord Ovest Milano: 16 comuni riuniti in un unico territorio, per riscoprire e promuovere le identità e le prospettive di un’area dall’alto potenziale culturale, turistico ed economico.


L’Orablù partecipa a questa iniziativa (come l’anno scorso) con vari eventi che si svolgeranno sia in Villa Arconati che a L’OrablùBar.

Sabato 13 aprile – ore 15
I GRAN BALLI RISORGIMENTALI
Villa Arconati
(Castellazzo di Bollate)
Saggio in costumi storici delle danze in uso nell’Ottocento.
Nella suggestiva Sala del Museo di Villa Arconati,
ballerini e ballerine
ricreano l’atmosfera di un ballo rinascimentale
A cura di La Società di Danza e L’OrabluBar






Sabato 20 Aprile dalle ore 19
L’ORA E’ GIA’ DOMANI
Giovani e cultura contro la crisi
L’Orablù Bar Via Dante 67 - Bollate
alle 19
Mostra fotografica di
Jordan Cozzi
studente del quinto anno del Liceo Artistico Lucio Fontana di Arese
alle 21
SLAM vs BLUES
La slampoetry incontra il blues
Le poesia slam di rap-poeti e il blues dei Jesus on a Tortilla si alternano in un’interessante sperimentazione che gioca con ritmo e parole.
Ingresso Libero


Infine segnaliamo un evento organizzato dal Comune di Bollate


mercoledì 3 aprile 2013

Molto più di una semplice personalità multipla, ovvero dell’onniscienza

Valentino è comparso per caso nella mia vita, era un pomeriggio di due mesi fa, forse tre, pensavo di andare in un museo, perché avevo finito presto di lavorare, faceva un freddo cane, e per niente al mondo mi sarei tolta i guanti, non prima di essere al caldo del museo. Lungo la strada, la solita bancarella domenicale di libri usati, mi sono fermata a darle uno sguardo, la voglia di comprare c’è sempre, la possibilità quasi mai, ma i libri usati hanno sempre ottimi prezzi tre per due ai quali è difficile resistere, e sapere che non sono propriamente una divoratrice di libri, quando questi sono in tedesco, finora non mi ha mai scoraggiata. Ad un tratto ho visto alcuni titoli in spagnolo, vuoi vedere che c’è qualcosa anche in italiano?, mi son detta, e così ho proseguito spedita, uno scatolone di banane dietro l’altro, finché ho trovato quello che conteneva i libri in italiano, e ho subito iniziato a seguire col dito guantato di triplo pile rosa i titoli sul dorso. Non ne conoscevo nemmeno uno, non a prima vista, ma qual è il problema?, si può sempre scoprire qualcosa di nuovo, mi son detta, tu leggi troppi blog di recensioni, non sempre si comprano libri di cui si è già letto, ho aggiunto cattiva, puoi osare come facevi una volta, ho pensato anche, incoraggiata però da alcuni autori conosciuti. E proprio mentre ero lì, con le mani nella scatole delle banane a frugare tra i libri usati, pronta a togliere i guanti per prendere le monetine dal portamonete, a costo di congelarmi le mani in un nano secondo, quindi decisa a trovare almeno due libri da prendere per usufruire del primo scaglione di sconto, quello del due per uno, è stato proprio allora che ho visto Valentino.
Uno sconosciuto, ma sua mamma la conoscevo già, perciò mi sono fidata di lui.
 

martedì 2 aprile 2013

Essi vivono


Essi vivono
(USA 1988)
Regia: John Carpenter
Sceneggiatura: John Carpenter
Ispirato al racconto: Eight O’Clock in the Morning di Ray Nelson
Cast: Roddy Piper, Keith David, Meg Foster, George “Buck” Flower, Peter Jason
Genere: complottista
Se ti piace guarda anche: Branded, Videodrome, Scanners

Crisi economica. Collasso del capitalismo. Zombie.

No, non si tratta di un nuovo film in arrivo nei cinema, ma di un’avantissima pellicola del 1988 di John Carpenter, ispirata a un racconto sci-fi risalente addirittura al 1963. Mentre gli USA erano ancora in piena era Ronald McDonald’s Reagan, c’era già chi attaccava il sistema yuppistico vigente e lo faceva con un film in grado di criticare in maniera feroce quel sistema oggi giunto ormai agli ultimi rantoli. Il sistema televisivocentrico, il sistema del produci-consuma-crepa, il system capitalista che sta andando down.
Mentre molte pellicole mainstream dell’epoca celebravano lo stile di vita yuppie, John Carpenter raccontava una storia diversa, quella di un uomo che vive come un homeless, vittima di una società in piena recessione economica, che trova degli occhialini e da lì in poi la sua visione della figa da vicino vita cambia.
Potrebbe sembrare la storia di James Cameron che trova degli occhialini 3D e pensa ahinoi di creare quella sciagura cinematografica di Avatar, e invece no.
Quando indossa questi occhiali magici, il protagonista di Essi vivono vede la realtà per com’è veramente: i giornali, i cartelloni pubblicitari per strada e i media in generale propongono in continuazione dei messaggi subliminali. Frasi e parole che inducono le persone a stare buone buonine nel loro recinto e a consumare. Ordini come: “OBBEDISCI”, “GUARDA LA TV”, “DORMI”, “UNIFORMATI”, “QUESTO E’ IL TUO DIO”, cose del genere.
L’idea degli occhiali per altro verrà ripresa anche nel videogioco impossibile del Nintendo The Simpsons: Bart vs. the Space Mutants. Allo stesso tempo, il protagonista della pellicola vede alcune persone per come sono davvero: degli scheletri zombie, non troppo distanti da quelli ripresi qualche anno più tardi dai Chemical Brothers nel video di “Hey Boy Hey Girl”.



Tornando al film: cosa sta succedendo nel mondo? Chi c’è dietro questo complotto?
Lo scoprirete guardando Essi vivono, che a 25 anni di distanza dimostra di essere per tematica ancora parecchio moderno. Laddove la pellicola, visivamente notevolissima, perde invece colpi è sul lato recitazione. Passi il simpatico Keith David, che negli ultimi 25 anni non è che sia cambiato più di tanto, ma il protagonista è davvero il grado zero dell’espressività. Per uno che dovrebbe interpretare uno degli illuminati che riescono a vedere le cose per cose sono davvero e smascherare gli zombie intorno a lui, è un po’ troppo zombie a livello recitativo. Si tratta non a caso di un ex wrestler, Roddy “Rowdy” Piper, che ha tentato la carriera come attore ma guarda caso, a parte questo film, non si è mai più segnalato in nessuna pellicola rilevante. Che strano. È il suo personaggio a non funzionare, a non coinvolgere del tutto, ed è un vero peccato perché per il resto John Carpenter ha realizzato uno dei suoi film più convincenti a livello di messaggio sociale e uno dei più visivamente grandiosi e di maggiore impatto della sua notevole carriera, grazie a una vicenda dai contorni sci-fi non troppo distante dalle parti di pellicole cronenberghiane come Videodrome e Scanners. E grazie a un finale geniale.



Un cult che poteva essere ancora più cult con una scelta di cast migliore, considerando come anche la protagonista femminile Meg Foster fosse ampiamente sostituibile. Comunque trattasi di un cult così attuale da essere in grado di ispirare una nuova pellicola, Branded. Perché essi vivono sì, ancora oggi. Essi chi? Essi quelli che provano a controllarci, a farci il lavaggio del cervello, a dirci cosa pensare. Una cosa abominevole. Insomma, perché obbligare le persone a fare qualcosa? Non lo so davvero, però GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM! GUARDA QUESTO FILM!
(voto 7,5/10)
Cannibal Kid